Processi tributari

Processi tributari e motivi dei ricorrenti

DEBITO SOGGETTO AD IVA

LA SENTENZA CON CUI IL DEBITORE CEDUTO SIA CONDANNATO AL PAGAMENTO NEI CONFRONTI DEL CESSIONARIO DI UN DEBITO SOGGETTO AD IVA DEVE ESSERE TASSATA NON IN MISURA PROPORZIONALE. LE SENTENZE DI CONDANNA NON SONO SOGGETTE ALL’IMPOSTA PROPORZIONALE PER LA PARTE IN CUI DISPONGONO IL PAGAMENTO DI CORRISPETTIVI SOGGETTI AD IVA.

La sentenza con cui il debitore ceduto sia condannato al pagamento nei confronti del cessionario di un debito soggetto ad Iva deve essere tassata non in misura proporzionale ma le sentenze di condanna non sono soggette all’imposta proporzionale per la parte in cui dispongono il pagamento di corrispettivi soggetti ad Iva ai sensi dell’articolo 40 del d.P.R. 131/86       Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943 RITENUTO CHE In data 20 settembre 2007 la società H. s.p.a cedeva pro soluto a C. F. s.p.a., oggi M. Italiano s.p.a., un credito nei confronti della Azienda Ospedaliera Universitaria II-Università degli Studi di Napoli, che accettava detta cessione. A seguito del mancato pagamento integrale del debito, C. F. s.p.a. otteneva decreto ingiuntivo dal tribunale di Napoli per la somma di euro 305.327, oltre accessori. L’agenzia delle entrate notificava avviso di liquidazione con cui liquidava l’imposta di registro applicando l’aliquota proporzionale del 3% ritenendo illegittimo il fatto che la parte avesse pagato l’imposta fissa ai sensi dell’articolo 40 del d.p.r. 131/86 in base al principio di alternatività dell’imposta di registro. La commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso con sentenza che era confermata dalla commissione tributaria regionale della Campania sul rilievo che il credito oggetto del decreto ingiuntivo era scaturito da un contratto di factoring che era un’operazione finanziaria rientrante indubbiamente nel campo di applicazione dell’Iva sicché, per il principio di alternatività Iva-Registro, il decreto ingiuntivo ottenuto a carico del debitore ceduto doveva scontare l’imposta fissa. Inoltre assumeva significato il fatto che l’agenzia delle entrate avesse adottato provvedimenti di autotutela in controversie similari anche per importi superiori a quello oggetto di causa. Avverso la sentenza della CTR propone ricorso per cassazione l’agenzia delle entrate affidato ad un motivo illustrato con memoria. La contribuente resiste con controricorso pure illustrato con memoria. CONSIDERATO CHE Con il primo motivo di ricorso l’agenzia delle entrate deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3, cod. proc. civ., in relazione all’art. 8, lett. b., della tariffa all. A al d.p.r. 131/1986 e all’art. 40 del t.u. 131/1986. Sostiene che, in conseguenza della cessione del credito, si sono venuti a creare due distinti rapporti: l’uno, tra il cedente e il ceduto, l’altro tra quest’ultimo e il cessionario. L’obbligazione derivante dal decreto ingiuntivo non attiene al credito tra la cedente ed il ceduto sottoposto a Iva ma è relativo al diverso e autonomo rapporto tra il ceduto e la società cessionaria. Rapporto che non è soggetto a Iva, trattandosi di azione volta al recupero di un debito scaduto. Ne consegue che tale prestazione, che non è soggetta all’imposta sul valore aggiunto, va sottoposta all’imposta di registro con aliquota proporzionale. Con il secondo motivo deduce nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 4, cod. proc. civ., per assoluta genericità della motivazione laddove la CTR ha affermato che l’agenzia delle entrate aveva adottato provvedimenti di autotutela in controversie similari anche per importi superiori a quello oggetto di causa. Preliminarmente va rigettata l’eccezione preliminare svolta dalla controricorrente la quale deduce l’inammissibilità del ricorso per genericità, avendo la ricorrente esaurientemente esposto i fatti e le ragioni di doglianza. In ordine al primo motivo di ricorso, osserva la Corte che l’obbligazione di pagamento che ha dato origine all’emissione del decreto ingiuntivo è distinta, 2 sotto il profilo soggettivo, dall’obbligazione sorta dal rapporto tra la società H. s.p.a e l’Azienda Ospedaliera Universitaria II-Università degli Studi di Napoli e da quella sorta tra la prima e Centro Factoring s.p.a., oggi M. s.p.a., per effetto della cessione di credito in esecuzione di un contratto di factoring che, a norma dell’art. 3, comma 2, n. 3 del d.P.R. 633/72, rientra nel campo di applicazione dell’Iva pur essendo soggetta al regime dell’esenzione. La cessione del credito ha comportato il subentro della cessionaria Centro Factoring s.p.a. nel rapporto giuridico tra la cedente H. s.p.a ed il debitore ceduto Azienda Ospedaliera Universitaria La questione dell’assoggettamento all’imposta di registro in misura proporzionale o fissa del decreto ingiuntivo o della sentenza ottenuta dal cessionario del credito nei confronti del debitore ceduto è stata oggetto di esame da parte di questa Corte che si è pronunciata con la sentenza n. 11312 del 2000 in un caso in cui il cessionario del credito instava per l’assoggettamento a tassa fissa di registro del decreto ingiuntivo ottenuto nei confronti del debitore ceduto in forza del fatto che il credito era stato ceduto ad estinzione dell’obbligazione derivante dal contratto di appalto stipulato tra cedente e cessionario. Ha affermato la Corte che il pagamento del credito ceduto attiene al rapporto tra il cedente ed il debitore ceduto e non al rapporto tra cedente e cessionario, sicché è incongruo fare riferimento al trattamento fiscale della prestazione resa dal cedente al cessionario dovendosi piuttosto considerare, ai fini della tassazione, il diverso rapporto tra cedente e debitore originario. Con la successiva sentenza n. 4802 del 2011 questa Corte, affermando di voler dare continuità all’orientamento già espresso con la sentenza n. 11312 del 2000, ha affermato, in realtà, un principio affatto diverso, ovvero che opponibili al cedente, sia quelle attinenti alla validità del titolo costitutivo del credito, sia quelle relative ai fatti modificativi ed estintivi del rapporto anteriori alla cessione od anche posteriori al trasferimento, ma anteriori all’accettazione della cessione o alla sua notifica o alla sua conoscenza di fatto ( così Cass. n. 9842 del 20/04/2018 e Cass. n. 575 del 17/01/2001). In considerazione della natura del credito originario, pacificamente rientrante nel campo dell’Iva, deve quindi affermarsi il principio secondo cui la sentenza con cui il debitore ceduto sia condannato al pagamento nei confronti del cessionario o del factor di un debito soggetto ad Iva deve essere tassata non in misura proporzionale con l’aliquota del 3% ai sensi dell’art. 8 della Tariffa allegata al d.P.R. 131/86 ma in base alla nota II al medesimo art. 8, secondo cui le sentenze di condanna non sono soggette all’imposta proporzionale per la parte in

ufficio finanziario

L’UFFICIO FINANZIARIO NON POTEVA RETTIFICARE IL VALORE DELL’IMMOBILE, OGGETTO DI COMPRAVENDITA, DA TERRENO EDIFICABILE IN FABBRICATO TIPO VILLINO. ALLA DATA DEL SOPRALLUOGO EFFETTUATO DALL’UFFICIO ERANO UNICAMENTE IN CORSO DI ESECUZIONE GLI SCAVI PER L’EDIFICAZIONE.

Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943 L’UFFICIO FINANZIARIO NON POTEVA RETTIFICARE IL VALORE DELL’IMMOBILE, OGGETTO DI COMPRAVENDITA, DA TERRENO EDIFICABILE IN FABBRICATO TIPO VILLINO. ALLA DATA DEL SOPRALLUOGO EFFETTUATO DALL’UFFICIO ERANO UNICAMENTE IN CORSO DI ESECUZIONE GLI SCAVI PER L’EDIFICAZIONE. FATTI DI CAUSA S.r.L. propone ricorso, affidato a cinque motivi, per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe, con cui la Commissione Tributaria Regionale del Lazio aveva accolto l’appello erariale avverso la sentenza n. 159/1/2012 della Commissione Tributaria Provinciale di Rieti in accoglimento del ricorso proposto avverso avviso di rettifica e liquidazione di maggiore imposta di registro, ipotecaria e catastale in relazione al valore dichiarato di un terreno edificabile, oggetto di compravendita da parte dell’odierna ricorrente. La Commissione Tributaria Regionale, in particolare, aveva accolto l’appello ritenendo che sussistessero elementi idonei a smentire la presunzione di coincidenza tra il valore del bene ceduto ed il corrispettivo percepito per la cessione dello stesso, essendo stata prodotta documentazione attestante il rilascio, in data anteriore al contratto, di permesso di costruire riguardante il fabbricato in costruzione sul suddetto terreno con l’inizio dei lavori di costruzione. L’Agenzia delle entrate si è costituita al solo scopo di partecipare all’udienza di discussione. La società ricorrente ha da ultimo depositato memoria difensiva. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente denuncia nullità della sentenza per extrapetizione e violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato avendo la Commissione Tributaria Regionale deciso la controversia sulla base di fatti (l’inizio dei lavori di edificazione mediante l’esecuzione di opere di scavo) diversi da quelli posti a fondamento dell’atto impositivo (l’esistenza del già costruito fabbricato, solamente in corso di ultimazione). 1.2. La censura va disattesa. 1.3. Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, al quale va data continuità, il principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (petitum e causa petendi), attribuendo o negando ad uno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nell’ambito della domanda o delle richieste delle parti (cfr. Cass. nn. 17897/2019, 22595/2009), né incorre nella violazione di tale principio il giudice d’appello che, rimanendo nell’ambito del petitum e della causa petendi, confermi la decisione impugnata sulla base di ragioni diverse da quelle adottate dal giudice di primo grado o formulate dalle parti, mettendo in rilievo nella motivazione elementi di fatto risultanti dagli atti ma non considerati o non espressamente menzionati dal primo Giudice (cfr. Cass. nn. 513/2019, 20652/2009). 1.4. Nel caso in esame, pertanto, la Commissione Tributaria Regionale non ha violato il principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., trattando domande od eccezioni nuove ma ha soltanto pronunciato sulle domande proposte dalle parti con motivazioni diverse rispetto a quelle addotte dalle medesime o dal Tribunale, ma comunque fondate su elementi di fatto risultanti dagli atti di causa (la documentazione inerente il rilascio del permesso dì costruire avente ad oggetto il fabbricato di cui trattasi). 2.1. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia nullità della sentenza per motivazione apparente per avere la Commissione Tributaria Regionale rigettato il ricorso della contribuente, limitandosi ad accertare che alla data dell’atto di compravendita i lavori di edificazione risultavano iniziati con opere di scavo, pervenendo tuttavia poi a ritenere che a quella data il villino fosse già stato realizzato e che la stima dell’ufficio fosse dunque congrua, nonostante la diversa consistenza del bene. 2.2. Nel lamentare la sostanziale mancanza di motivazione posta a sostegno della decisione impugnata, il motivo è inammissibile ai sensi dell’articolo 360 bis, numero 1, c.p.c. 2.3. Le Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053; Cass., Sez. Un., 18 aprile 2018, n. 9558; Cass., Sez. Un., 31 dicembre 2018, n. 33679; Cass., Sez. Un., 21 febbraio 2019, n. 5200) hanno, invero, evidenziato come il sindacato di legittimità sulla motivazione sia ormai ricondotto a quello di violazione di legge, riguardando l’inesistenza della motivazione in sé, che risulti dal testo della sentenza impugnata, esaurentesi nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile. 2.4. Nel caso in esame il giudice di merito ha ritenuto fondata la pretesa tributaria ritenendo che alla data dell’atto di compravendita il valore dell’immobile dovesse tener conto della trasformazione dello stesso mediante inizio dei lavori di costruzione del villino. 2.5. Ciò vale ad escludere che la sentenza impugnata manchi di una motivazione ovvero sia fondata su una motivazione meramente apparente. 3.1. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 43, comma 1, lett. a), 51 e 52 DPR n. 131/1986 per avere la Commissione Tributaria Regionale confermato la pretesa tributaria sul presupposto che l’immobile, oggetto di compravendita, avesse la consistenza di un villino edificato in via di ultimazione, e non di terreno edificabile, pur non avendo l’Ufficio dimostrato che il villino fosse già esistente alla data dell’atto. 3.2. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in relazione alla consistenza del bene come terreno edificato con villino in corso di ultimazione avendo la Commissione Tributaria Regionale trascurato di esaminare le prove documentali prodotte dalla contribuente circa l’edificazione del villino solo dopo l’acquisto del terreno, attestanti che alla data del sopralluogo effettuato dall’Ufficio erano unicamente in corso di esecuzioni gli scavi per l’edificazione 3.3. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 43, comma 1, lett. a), 51 e 52 DPR n. 131/1986 per avere la Commissione Tributaria Regionale jamexvie-krety~siang-T-ributaria Reginale omesso di determinare la base imponibile tenendo conto del valore del bene alla data dell’atto, essendo irrilevanti i mutamenti di fatto sopravvenuti all’atto da sottoporsi a tassazione. 3.4. Le doglianze possono essere esaminate congiuntamente, in

PRESUPPOSTO PER L’APPLICAZIONE DELLA NORMA

IL PRESUPPOSTO PER L’APPLICAZIONE DELLA NORMA SI RINVIENE NELLA CIRCOSTANZA CHE IL SERVIZIO TURISTICO CHE VIENE COMPRAVENDUTO SIA RESO DA ALTRI SOGGETTI (AD ESEMPIO UNA STRUTTURA ALBERGHIERA) E SIA STATO ACQUISITO NELLA DISPONIBILITA’ DELL’AGENZIA PRECEDENTEMENTE AD UNA SPECIFICA RICHIESTA DEL CLIENTE

IL PRESUPPOSTO PER L’APPLICAZIONE DELLA NORMA SI RINVIENE NELLA CIRCOSTANZA CHE IL SERVIZIO TURISTICO CHE VIENE COMPRAVENDUTO SIA RESO DA ALTRI SOGGETTI (AD ESEMPIO UNA STRUTTURA ALBERGHIERA) E SIA STATO ACQUISITO NELLA DISPONIBILITA’ DELL’AGENZIA PRECEDENTEMENTE AD UNA SPECIFICA RICHIESTA DEL CLIENTE Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943 Il presupposto per l’applicazione della norma si rinviene nella circostanza che il servizio turistico che viene compravenduto sia reso da altri soggetti (ad esempio una struttura alberghiera) e sia stato acquisito nella disponibilità dell’agenzia precedentemente ad una specifica richiesta del cliente Civile Sent. Sez. 5 Num. 3857 Anno 2022: in materia di Iva, l’art. 74 ter, co. 5 bis, ai fini dell’applicazione del regime IVA agevolato di cui all’art. 74 ter, co.1, del d.p.r. n. 633/1972, non richiede che l’agenzia di viaggi acquisti preventivamente la titolarità del servizio turistico, limitandosi, con termine generico, a richiedere che ne abbia acquisito la disponibilità anteriormente alla richiesta del cliente, come nel caso in cui l’agenzia, anteriormente alla richiesta del proprio cliente, ha acquisito dalla struttura alberghiera il diritto di opzione temporanea sulle camere di albergo e sui servizi turistici ulteriori che, suo tramite, saranno erogabili ai clienti». Le operazioni effettuate dalle agenzie di viaggio e di turismo per la organizzazione di pacchetti turistici costituiti, ai sensi dell’articolo 2 del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 111, da viaggi, vacanze, circuiti tutto compreso e connessi servizi, verso il pagamento di un corrispettivo globale sono considerate come una prestazione di servizi unica. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche qualora le suddette prestazioni siano rese dalle agenzie di viaggio e turismo tramite mandatari; le stesse disposizioni non si applicano alle agenzie di viaggio e turismo che agiscono in nome e per conto dei clienti. Con il primo motivo, la ricorrente principale denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art.74 ter d.P.R. 26 ottobre 1972 n.633 e dell’art.1331 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. Secondo la ricorrente erroneamente la C.t.r. aveva ritenuto l’applicabilità alla fattispecie in esame del regime agevolato di cui al quinto comma dell’art.74 ter d.P.R. 26 ottobre 1972 n.633, in virtù del richiamo del successivo comma 5 bis. La ricorrente sostiene che, alla luce della richiamata normativa, il regime agevolato in materia di Iva ricorre quando l’agenzia di viaggio abbia commercializzato un pacchetto turistico che si trovava già nella sua disponibilità anteriormente alla richiesta del cliente, mentre non sarebbe applicabile quando i servizi non sono ancora nella disponibilità dell’agente, oppure quando l’agenzia agisce in nome e per conto dei clienti presso i tour operator, oppure i servizi siano venduti singolarmente. Nel caso di specie, il patto di opzione, intercorrente tra l’agente e le strutture alberghiere o i vettori, aveva solo l’effetto di rendere irrevocabile la proposta contrattuale del proponente, conferendo al beneficiario il diritto di opzione nel termine fissato contrattualmente, ma non la disponibilità giuridica del diritto o del bene oggetto del successivo contratto, tanto che, nel caso di alienazione ad un terzo di buona fede del bene opzionato, il beneficiario avrebbe potuto esperire nei confronti del proponente solo un’azione risarcitoria. Secondo la ricorrente, dunque, il contribuente aveva agito in veste di mero mandatario senza rappresentanza, intermediatore tra il tour operator e la struttura alberghiera o il vettore, concludendo l’accordo contrattuale solo dopo aver ricevuto richiesta specifica dal tour operator a seguito di prenotazione del cliente. Con il secondo motivo, la ricorrente principale denunzia, ex art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ., l’insufficiente motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, consistenti nelle concrete modalità operative dell’attività commerciale del contribuente. In particolare, l’Agenzia ricorrente deduce che la sentenza impugnata presenterebbe una motivazione gravemente insufficiente, laddove ha considerato acclarata la circostanza della disponibilità dei servizi turistici a seguito della mera conclusione di un patto di opzione tra il sig X e gli albergatori e vettori, prima della formalizzazione dell’ordine di acquisto da parte dei tour operator, clienti del contribuente. 1.3. I motivi dell’Agenzia delle Entrate, da esaminare congiuntamente perché connessi, sono infondati e vanno rigettati. Ai sensi del primo comma dell’art.74 ter d.P.R. n.633/1972, vigente ratione temporis, «1. Le operazioni effettuate dalle agenzie di viaggio e di turismo per la organizzazione di pacchetti turistici costituiti, ai sensi dell’art. 2 del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 111, da viaggi, vacanze, circuiti tutto compreso e connessi servizi, verso il pagamento di un corrispettivo globale sono considerate come una prestazione di servizi unica. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche qualora le suddette prestazioni siano rese dalle agenzie di viaggio e turismo tramite mandatari; le stesse disposizioni non si applicano alle agenzie di viaggio e turismo che agiscono in nome e per conto dei clienti». A mente dei successivi commi 5 e 5 bis «5. Per le prestazioni rese dalle agenzie di viaggio e turismo che agiscono in nome e per conto proprio relative a pacchetti turistici organizzati da altri soggetti e per le prestazioni dei mandatari senza rappresentanza di cui al secondo periodo del comma 1, l’imposta si applica sulla differenza, al netto dell’imposta, tra il prezzo del pacchetto turistico ed il corrispettivo dovuto all’agenzia di viaggio e turismo, comprensivi dell’imposta. 5-bis. Per le operazioni rese dalle agenzie di viaggio e turismo relative a prestazioni di servizi turistici effettuati da altri soggetti, che non possono essere considerati pacchetti turistici ai sensi dell’art. 2 del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 111, qualora precedentemente acquisite nella disponibilità dell’agenzia, l’imposta si applica, sempreché dovuta, con le stesse modalità previste dal comma 5» (quest’ultimo comma introdotto, con effetto dall’ 1.1.1998, dall’articolo 1, comma 1, lettera h), del d.lgs. 23 marzo 1998, n. 56). Dunque, il regime di cui all’art. 74 ter si applica alle vendite in proprio o tramite mandatari con rappresentanza di pacchetti turistici (in materia di “vacanze studio” è intervenuta la Corte di giustizia con la sentenza di cui alla causa C-200/04 del 13 ottobre 2005, secondo cui il regime speciale si

CREDITO d'imposta

IL DISCONOSCIMENTO, DA PARTE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE, DI UN CREDITO D’IMPOSTA NON PUO’ AVVENIRE TRAMITE L’EMISSIONE DELLA CARTELLA DI PAGAMENTO AVENTE AD OGGETTO IL RELATIVO IMPORTO, SENZA ESSERE PRECEDUTA DA UN AVVISO DI RECUPERO DEL CREDITO DI IMPOSTA.

IL DISCONOSCIMENTO, DA PARTE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE, DI UN CREDITO D’IMPOSTA NON PUO’ AVVENIRE TRAMITE L’EMISSIONE DELLA CARTELLA DI PAGAMENTO AVENTE AD OGGETTO IL RELATIVO IMPORTO, SENZA ESSERE PRECEDUTA DA UN AVVISO DI RECUPERO DEL CREDITO DI IMPOSTA. “Ne consegue che, in caso in cui, come nella specie, venga messa in discussione l’esistenza del credito di imposta era necessario il contraddittorio preventivo” “ Il disconoscimento, da parte dell’Amministrazione finanziaria, di un credito d’imposta non può avvenire tramite l’emissione di cartella di pagamento avente ad oggetto il relativo importo, senza essere preceduta da un avviso di recupero di credito d’imposta” Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943   FATTO e DIRITTO Considerato che: La CTR rigettava l’appello dell’Ufficio avverso la pronuncia della CTP concordando con il giudice di primo grado sull’illegittimità della cartella impugnata in quanto non preceduta da un avviso bonario o comunque da una forma di contraddittorio endoprocedimentale. L’Ufficio propone ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo con cui si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art 36 bis del DPR 600/1973 e dell’art 54 bis del DPR 633/1972 nonché dell’art. 6 comma cinque della legge 212/2000 in relazione all’art 360 primo comma nr 3 c.p.c. Si sostiene che la procedura di controllo automatizzato consente all’Ufficio di procedere all’iscrizione a ruolo delle somme che risultano dovute all’esito del controllo cartolare sui dati presenti nella dichiarazione del contribuente che non presentino necessità di valutazioni ulteriori. Si è costituito con controricorso illustrato da memoria il contribuente eccependo l’inammissibilità del ricorso per difetto di autosufficienza. Va preliminarmente rigettata in quanto infondata l’eccezione sollevata dal contribuente. Si rileva che in tema di ricorso per cassazione, il principio di autosufficienza è volto ad agevolare la comprensione dell’oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata, da evincersi unitamente ai motivi dell’impugnazione. La specifica indicazione, o riproduzione, degli atti e dei documenti è richiesta quante volte si assuma che la sentenza è censurabile per non averne tenuto conto e che, se lo avesse fatto, la decisione sarebbe stata diversa. La Corte deve, in tal caso, poter verificare che quanto il ricorrente afferma trovi effettivo riscontro negli atti: nel caso in esame un simile obbligo non sussiste, non essendovi la controversia sul contenuto degli atti, ma solo sul profilo di diritto costituito dalla legittimità o meno della cartella ai sensi dell’art. 36-bis. Il motivo è infondato. Si è in proposito affermato (Cass. n. 4360 del 20/02/2017; conf. Cass. n. 29582 del 16/11/2018) che: “in tema di controlli delle dichiarazioni tributarie, l’attività dell’Ufficio accertatore, correlata alla contestazione di detrazioni e crediti indicati dal contribuente, qualora nasca da una verifica di dati indicati da quest’ultimo e dalle incongruenze dagli stessi risultanti, non implica valutazioni, sicché è legittima l’iscrizione a ruolo della maggiore imposta ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54-bis, non essendo necessario un previo avviso di recupero”. La giurisprudenza di questa Corte è ferma e costante nel ritenere che (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 14949 del 08/06/2018) in tema di accertamenti e controlli delle dichiarazioni tributarie, l’iscrizione a ruolo della maggiore imposta ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, e del D.P.R. n. 633 del 1972, 54 bis, è ammissibile solo quando il dovuto sia determinato mediante un controllo meramente cartolare, sulla base dei dati forniti dal contribuente o di una correzione di errori materiali o di calcolo, non potendosi, invece, con questa modalità, risolvere questioni giuridiche, sicché il disconoscimento, da parte dell’Amministrazione finanziaria, di un credito d’imposta non può avvenire tramite l’emissione di cartella di pagamento avente ad oggetto il relativo importo, senza essere preceduta da un avviso di recupero di credito d’imposta o quanto meno bonario. E ancora, si è ulteriormente specificato come (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 30791 del 28/11/2018) in tema di controllo cd. cartolare della dichiarazione, l’Amministrazione finanziaria non può emettere la cartella di pagamento D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36-bis, ove venga in rilievo non già un errore materiale o di calcolo bensì l’interpretazione di una disposizione normativa, come certamente è quella che disciplina la spettanza o meno di un credito d’imposta; ( Cass 2021 nr 69881). Ne consegue che, in caso in cui, come nella specie, venga messa in discussione l’esistenza del credito di imposta era necessario il contraddittorio preventivo e la cui mancanza comportava la nullità della iscrizione a ruolo e della cartella di pagamento per violazione dei diritti di difesa e della possibilità di instaurare il contraddittorio con la Amministrazione Finanziaria. Alla stregua delle considerazioni sopra esposte il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo secondo i criteri vigenti. Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943   P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso dell’Agenzia delle Entrate e condanna l’Amministrazione al pagamento delle spese di legittimità

IL VIZIO DI MOTIVAZIONE NON E’ UN VIZIO STRETTAMENTE FORMALE BENSI’ UN VIZIO DI FRONTIERA TRA VIZI FORMALI E VIZI SOSTANZIALI

IL VIZIO DI MOTIVAZIONE NON E’ UN VIZIO STRETTAMENTE FORMALE BENSI’ UN VIZIO DI FRONTIERA TRA VIZI FORMALI E VIZI SOSTANZIALI “La motivazione dell’avviso di cui trattasi, mancando di puntuali riferimenti giuridici e di puntuali indicazioni sulle somme dovute per ciascun titolo, non consente di comprendere le ragioni della pretesa. La Corte accoglie il terzo, il quarto e il quinto motivo di ricorso, dichiara assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata e decide nel merito con accoglimento dell’originario ricorso”. Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943 L’Agenzia delle Entrate emetteva un avviso con cui liquidava l’imposta di registro, l’imposta di bollo, le sanzioni sull’imposta di registro, gli interessi su entrambe le imposte e le “entrate eventuali dell’Agenzia delle Entrate“, in relazione ad un decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Milano nonché a tre atti (un contratto preliminare; una scrittura privata di mutuo; un riconoscimento di debito) enunciati nel medesimo decreto. La motivazione dell’avviso si esaurisce nella indicazione degli estremi del decreto ingiuntivo e della data dei tre atti enunciativi, nella indicazione cumulativa degli articoli di legge applicati (artt. 5 e 22 del d.P.R. 131/1986; 69 del d.P.R. 131/1986; 25 del d.P.R. 642 /1972) e degli importi liquidati per ciascuna imposta, nell’indicazione degli importi liquidati complessivamente per le sanzioni e per gli interessi, nella indicazione dell’importo dovuto per “entr. event. dell’Agenzia” e nella indicazione della somma totale dovuta. 3.L’avviso, impugnato dal contribuente e annullato dall’adita CTP di Milano, veniva invece ritenuto legittimo dalla CTR della Lombardia. Quest’ultima, con la sentenza in epigrafe, sulla premessa che ai fini del rispetto dell’obbligo motivazionale imposto dall’art. 7 della 1.212 del 2000 “è sufficiente che l’avviso enunci il criterio astratto in base al quale è stata determinata l’imposta di registro“, riteneva l’avviso “adeguatamente motivato“. La CTR riconosceva corretta la liquidazione delle somme richieste. Il contribuente ricorre, con undici motivi illustrati con memoria, per la cassazione della sentenza della CTR. L’Agenzia resiste con controricorso. RAGIONI DELLA DECISIONE La sentenza della CTR viene censurata per violazione dell’art. 7 della 1.212 del 2000. I motivi sono fondati e meritano accoglimento. La motivazione dell’avviso si esaurisce in quanto sopra riportato. L’obbligo di motivazione imposto dall’art. 7 della l. 212 del 2000 è soddisfatto quando il contribuente è messo nella condizione di conoscere esattamente la pretesa impositiva, individuata nel “petitum” e nella “causa petendi“. La motivazione dell’avviso di cui trattasi, mancando di puntuali riferimenti giuridici e di puntuali indicazioni sulle somme dovute per ciascun titolo, non consente di comprendere le ragioni della pretesa. Al contrario di quanto affermato dalla CTR, l’avviso in questione non è dotato di motivazione conforme a quanto stabilito dell’art. 7, comma 1, della legge 212/2000. Merita aggiungere che questa Corte, con sentenza n. 30039 del 21 novembre 2018, ha preso le distanze dall’orientamento, richiamato nella sentenza impugnata ed evocativo della configurazione dell’avviso di accertamento come provocatio ad opponendum, in base alla quale, il discorso motivazionale può sostanziarsi nella sola enunciazione dei criteri astratti sulla base dei quali l’avviso di accertamento è stato emesso venendo poi rimessa alla fase processuale la questione della prova della correlazione tra l’enunciazione astratta e la concreta sussistenza dei fatti fondanti l’accertamento. Le ragioni di non condivisibilità di tale configurazione sono le seguenti: un avviso di accertamento astratto e avulso dalla ricostruzione degli elementi concreti fondanti l’obbligazione tributaria, basato sulla enunciazione di una causa petendi ampiamente integrabile con gli elementi di fatto e probatori della fattispecie concreta in sede di eventuale, successiva, impugnazione giudiziale, è da ritenersi in contrasto con la lettera e la ratio del citato art. 7 della legge 2000, n.212; una siffatta configurazione dell’obbligo motivazionale conduce a considerare sufficiente una motivazione quand’anche inidonea a rendere in tutto comprensibili i termini della pretesa tributaria, una motivazione che non garantisce il pieno dispiegarsi delle facoltà difensive del contribuente né una corretta dialettica processuale e, in ultimo, una motivazione che non assicura, nel rispetto del principi costituzionali di legalità e buona amministrazione, un’azione amministrativa efficiente, trasparente e congrua alle finalità della legge. L’obbligo di motivazione deve essere soddisfatto ab origine. Va disattesa quindi l’eccezione sollevata dall’Agenzia contro i motivi di ricorso in esame fondata sulla produzione documentale effettuata dalla medesima Agenzia nel corso del giudizio di primo grado ed in forza della quale era stata precisata la base imponibile per ciascun atto (decreto e atti enunciati), erano state specificate le aliquote applicate per l’imposta di registro su ciascun atto, erano stati quantificati distintamente gli importi dovuti a titolo di imposta di bollo per ciascun atto e quantificati distintamente gli importi dovuti per interessi sulle imposte relative a ciascun atto. La motivazione è un requisito intrinseco dell’atto. Non è ammessa cioè la motivazione postuma. Vi ostano: l’art. 3 della l. 241/1990, il quale, facendo riferimento alle ragioni che “hanno determinato” la decisione dell’amministrazione, correla il dato temporale della motivazione al momento della emanazione dell’atto; l’art. 18 del d.lgs. 546/1992, il quale, imponendo al contribuente di specificare nel ricorso introduttivo di primo grado, i motivi di impugnazione, presuppone che l’atto dia conto delle ragioni della pretesa (altrimenti il ricorso non potrebbe che essere, in tutto o in parte, “al buio”); gli artt. 23 e 32 del d .lgs. n. 546 del 1992 che, consentendo all’amministrazione di produrre in giudizio gli elementi di prova richiamati nell’atto impositivo e di dedurne di nuovi nei limiti di quanto consequenziale ai motivi di ricorso, presuppongono che detti elementi siano compiutamente indicati nell’avviso. Merita ancora rilevare, contro l’ulteriore eccezione sollevata dall’Agenzia, che l’art. 21octies della 1.241/1990 (secondo cui “non è annullabile il provvedimento amministrativo emesso in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, qualora sia palese che il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato“), non è riferibile all’atto tributario non motivato (v. Cass. n. 34407 del 23/12/2019, punti 1 e 3.1 della motivazione; 4388 del 14/02/2019). E ciò per l’assorbente ragione che solo attraverso la motivazione può emergere se il contenuto dispositivo dell’atto

canoni di leasing

INDEDUCIBILITA’ DI COSTI NON INERENTI: I CANONI DI LEASING RAPPRESENTANO PER L’UTILIZZATORE UN COSTO DEDUCIBILE, SEMPRE CHE IL BENE OGGETTO DEL CONTRATTO SIA STRUMENTALE ALL’ATTIVITA’ DI IMPRESA E, QUINDI, INERENTE.

INDEDUCIBILITA’ DI COSTI NON INERENTI: I CANONI DI LEASING RAPPRESENTANO PER L’UTILIZZATORE UN COSTO DEDUCIBILE, SEMPRE CHE IL BENE OGGETTO DEL CONTRATTO SIA STRUMENTALE ALL’ATTIVITA’ DI IMPRESA E, QUINDI, INERENTE. Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943   Nella Cass. Civile Sent. Sez. 5 Num. 1 Anno 2022: con avviso di accertamento l’Agenzia delle entrate contestava, alla società, ai fini Irpef ed Irap, a) l’indeducibilità di costi non inerenti in quanto non documentati, per euro 28.195,87, b) l’indeducibilità di costi per rimborsi chilometrici riguardanti l’utilizzo di un’autovettura non intestata alla società ma detenuta in leasing e avente una potenza superiore ai 17 cavalli fiscali, per euro 16.505,42, c) l’indeducibilità, ex art. 37 bis d.P.R. del 29/09/1973 n. 600, di minusvalenza generata dalla cessione di quote della società XXX s.r.I., per euro 585.750,00. La srl contribuente proponeva ricorso avverso l’avviso di accertamento che veniva parzialmente accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Milano, limitatamente alla minusvalenza ed ai costi non documentati. L’Agenzia delle entrate proponeva appello avverso tale sentenza innanzi alla CTR della Lombardia, che, con la sentenza in epigrafe, accoglieva il gravame dell’Ufficio, confermando l’avviso di accertamento emesso nei confronti della società contribuente. 4.La spa contribuente ha presentato ricorso per la cassazione della sentenza della CTR affidato a sei motivi. 5.L’Agenzia delle entrate ha depositato foglio di costituzione ai soli fini della sua partecipazione all’udienza pubblica. RAGIONI DELLA DECISIONE Col quinto ed il sesto mezzo la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui, da un lato, ha violato l’art. 95 t.u.i.r., non riconoscendo la deducibilità dei costi sostenuti per l’utilizzo dell’autoveicolo di potenza superiore ai 17 cavalli fiscali, in quanto intestato ad una società di leasing (quinto motivo), dall’altro (sesto motivo), in quanto recante una motivazione insufficiente sul perché, qualora il veicolo sia intestato ad una società di leasing, non possano dedursi i costi relativi al suo utilizzo. 6.1. L’art. 164 t.u.i.r. prevede, in via generale, i limiti di deduzione delle spese e degli altri componenti negativi, relativi a taluni mezzi di trasporto a motore, utilizzati nell’esercizio di imprese, arti e professioni, distinguendo i veicoli a deducibilità integrale (art. 164, c. 1, lett. a) e i veicoli a deducibilità limitata (art. 164, c. 1, lettere b) e b-bis). L’art. 95, t.u.i.r., regola specificamente le spese per prestazioni di lavoro e, nell’ultimo inciso del terzo comma, prevede che ove il dipendente o il titolare di collaborazione continuata e coordinata, sia stato autorizzato ad utilizzare un autoveicolo di sua proprietà, ovvero noleggiato, per trasferte, la spesa deducibile è limitata, rispettivamente, al costo di percorrenza o alle tariffe di noleggio relative ad autoveicoli di potenza non superiore a 17 cavalli, ovvero 20 se con motore diesel. Per i veicoli non disciplinati dal TUIR è principio assolutamente pacifico che si applica il principio generale dell’inerenza (art. 109, c. 5 t.u.i.r.). 6.2. La CTR, nella parte in cui ha escluso la deducibilità dei costi relativi all’utilizzo dell’autovettura in quanto detenuta in leasing, non ha fatto corretta applicazione della normativa di riferimento che, in combinato disposto delle disposizioni richiamate, lega la deducibilità delle spese di utilizzo degli autoveicoli esclusivamente alla loro funzione strumentale rispetto all’attività di impresa, senza limiti derivante dalla “proprietà” o dal “noleggio” degli stessi. Peraltro, come indicato dalla società ricorrente, l’art. 95 t.u.i.r consente espressamente la deducibilità dei costi derivanti dall’uso di autoveicoli noleggiati, cui il leasing afferisce, col solo limite percentuale della potenza fiscale. 6.3. Ed invero, il leasing finanziario, o locazione finanziaria, è una forma di acquisto dell’autoveicolo in un determinato periodo di tempo (in genere non inferiore ai 48 mesi), potendo il locatario, alla fine del periodo, esercitare il diritto di riscatto del bene, acquistando la proprietà dell’autovettura. Esistono, peraltro, forme di leasing finanziario assimilabili al noleggio a lungo termine, in quanto comprensive di assicurazione e manutenzione per tutta la durata del canone. I canoni di leasing, rappresentano, dunque, per l’utilizzatore, in via generale, un costo deducibile, sempre che il bene oggetto del contratto sia strumentale all’attività di impresa e, quindi, inerente. 6.4. La CTR non ha fatto retta applicazione di tali principi in base ai quali avrebbe dovuto operare un giudizio sull’inerenza dei relativi costi anche se derivanti da un contratto di leasing – ovvero se i costi derivanti dall’utilizzo in leasing dell’autovettura, fossero inerenti e quindi strumentale per l’esercizio dell’impresa – ed infine, calcolare la potenza fiscale per i limiti percentuali della deduzione. La decisione impugnata, in parte qua, risente anche di un deficit motivazionale, nella parte in cui, contravvenendo la disposizione in parola, non ha spiegato in che termini la fattispecie al suo esame non rientrasse nei parametri della deducibilità, in relazione all’effettiva esistenza di importi eccedenti quelli fiscalmente deducibili. In conclusione, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio, in parte qua, alla CTR della Lombardia, in diversa composizione, perché verifichi la sussistenza dei presupposti per la deducibilità dei costi inerenti all’utilizzo dell’autovettura detenuta in leasing dalla società Il giudice di rinvio è tenuto a provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità. Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943   P.Q.M. Accoglie il ricorso limitatamente ai motivi quinto e sesto, rigettandolo nel resto. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla CTR della Lombardia.

contribuente

L’UFFICIO AVEVA CONTESTATO AL CONTRIBUENTE L’ESERCIZIO DI ATTIVITA DI IMPRESA IN RELAZIONE ALLA COMMERCIALIZZAZIONE ON LINE DI TELEFONI CELLULARI

L’UFFICIO AVEVA CONTESTATO AL CONTRIBUENTE L’ESERCIZIO DI ATTIVITA DI IMPRESA IN RELAZIONE ALLA COMMERCIALIZZAZIONE ON LINE DI TELEFONI CELLULARI   I MOTIVI ADDOTTI DALL’AGENZIA DELLE ENTRATE SONO INFONDATI O INAMMISSIBILI. La Corte rigetta il ricorso dell’Agenzia delle Entrate e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese. Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943 FATTI DI CAUSA L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale che, in accoglimento dell’appello, ha annullato gli avvisi di accertamento con cui erano state rettificate le dichiarazioni. 1.1. Dall’esame della sentenza impugnata si evince che con tali atti l’Ufficio aveva contestato al contribuente, lavoratore dipendente di un negozio di articoli elettronici, l’esercizio di attività di impresa, in relazione alla commercializzazione on line di telefoni cellulari, e recuperato le maggiori imposte non versate. Il giudice di appello ha accolto il gravame del contribuente evidenziando, tra le altre circostanze, che non vi era prova del fatto che le operazioni rilevate si fossero effettivamente concluse, avuto riguardo alla mancata dimostrazione degli acquisti dei beni riveduti e dell’incasso delle rilevate cessioni. Il ricorso è affidato a cinque motivi. Resiste con controricorso il contribuente. RAGIONI DELLA DECISIONE Con il primo motivo l’Agenzia denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione dell’art. 112 c.p.c. per “extrapetizione”, per aver la sentenza impugnato accolto l’appello del contribuente sulla base di elementi fattuali non dedotti dalla parte nel suo ricorso introduttivo, quali la prova degli acquisti dei beni rivenduti – e dei relativi costi sostenuti – e l’assenza di fatture relative alle cessioni contestate. 1.1. Il motivo addotto dall’Agenzia delle Entrate è infondato. Il vizio di ultra o extra petizione ricorre quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (petitum o causa petendi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato) oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori. Ne consegue che tale vizio deve essere escluso qualora il giudice, contenendo la propria decisione entro i limiti delle pretese avanzate o delle eccezioni proposte dalle parti, e riferendosi ai fatti da esse dedotti, abbia fondato la decisione stessa sulla valutazione unitaria delle risultanze processuali, pur se in base ad argomentazioni o considerazioni non svolte dalle parti medesime (cfr. Cass. 11 ottobre 2006, n. 21745; Cass. 31 gennaio 2006, n. 2146). In applicazione di tali principi, deve escludersi che nel caso in esame ricorra il vizio formulato, in quanto, come emerge dalla stessa prospettazione del ricorrente, il giudice, lungi dal pronunciarsi su motivi di impugnazione non articolati o su fatti estintivi della pretesa erariale non dedotti, si è limitato a porre a base della sua decisione argomentazioni – benché non previamente sviluppate dal contribuente nei suoi atti difensivi – in ordine alle ragioni per cui la pretesa erariale non era stata dimostrata, evidenziando l’assenza di elementi di prova necessari – nel caso in esame – per la prova della pretesa erariale esercitata. 2. Con il secondo motivo la ricorrente Agenzia delle Entrate deduce la violazione degli art. 39, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, 54, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e 2700 e 2727 e ss. c.c., per aver il giudice di appello ritenuto non dimostrati i fatti posti a fondamento dell’atto impositivo, benché emergenti dal processo verbale di constatazione. Evidenzia, in particolare, che in tale processo verbale i verificatori avevano riportato informazioni relative alla riferibilità al contribuente degli account utilizzati per la realizzazione delle cessioni contestate e che il volume delle vendite operate con tali account era stato riferito da una nota del gestore del mercato elettronico. 2.1. Anche il secondo motivo è infondato. E’ principio consolidato quello per cui in tema di accertamenti tributari, il processo verbale di constatazione assume un valore probatorio diverso a seconda della natura dei fatti da esso attestati, potendosi distinguere al riguardo un triplice livello di attendibilità: a) il verbale è assistito da fede privilegiata, ai sensi dell’art. 2700 c.c., relativamente ai fatti attestati dal pubblico ufficiale come da lui compiuti o avvenuti in sua presenza o che abbia potuto conoscere senza alcun margine di apprezzamento o di percezione sensoriale, nonché quanto alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni a lui rese; b) quanto alla veridicità sostanziale delle dichiarazioni a lui rese dalle parti o da terzi — e dunque anche del contenuto di documenti formati dalla stessa parte e/o da terzi — esso fa fede fino a prova contraria, che può essere fornita qualora la specifica indicazione delle fonti di conoscenza consenta al giudice ed alle parti l’eventuale controllo e valutazione del contenuto delle dichiarazioni; c) in mancanza della indicazione specifica dei soggetti le cui dichiarazioni vengono riportate nel verbale, esso costituisce comunque elemento di prova, che il giudice deve in ogni caso valutare, in concorso con gli altri elementi, potendo essere disatteso solo in caso di sua motivata intrinseca inattendibilità o di contrasto con altri elementi acquisiti nel giudizio, attesa la certezza, fino a querela di falso, che quei documenti sono comunque stati esaminati dall’agente verificatore» (cfr., tra le altre, Cass., ord., 5 ottobre 2018, n. 24461; Cass. 24 novembre 2017, n. 28060; Cass. 20 marzo 2007, n. 6565). Orbene, quanto alla mancata considerazione delle risultanze del processo verbale di constatazione relative alla riferibilità al contribuente degli account utilizzati per le operazioni contestate, tali risultanze costituiscono, in applicazione dei riferiti principi, meri elementi di prova che il giudice ha preso in esame, ma all’esito della valutazione complessiva degli elementi probatori, ha ritenuto che non fossero idonei a dimostrare che il contribuente medesimo avesse effettuato tali operazioni. In ordine, invece, alla omessa valutazione delle dichiarazioni del gestore del mercato elettronico, rese per iscritto a seguito di richiesta dei verificatori, la censura si presenta priva di rilevanza in quanto la mancata prova dell’effettuazione da parte del contribuente delle operazioni contestate fa venir meno l’interesse

thin capitalization

Il metodo utilizzato dai giudici di appello, praticabile per le cd. holding di diritto, si discosta dai criteri richiamati dal documento di prassi per le cd. holding di fatto e non consente, dunque, di stabilire se, se possa o meno ritenersi in concreto applicabile la disciplina della “thin capitalization”

Il metodo utilizzato dai giudici di appello, praticabile per le cd. holding di diritto, si discosta dai criteri richiamati dal documento di prassi per le cd. holding di fatto e non consente, dunque, di stabilire se, se possa o meno ritenersi in concreto applicabile la disciplina della “thin capitalization” Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943 Il secondo motivo del ricorso incidentale è fondato. 11.1. Giova premettere che con il meccanismo della thin capitalization (o capitalizzazione sottile), previsto dall’art. 98 del t.u.i.r., introdotto dal d.lgs. del 12 dicembre 2003, n. 344 (e abrogato dalla legge 24 dicembre 2007, n. 244, in vigore dal periodo successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007), si è inteso limitare la deduzione di interessi passivi in presenza di un rapporto tra capitale proprio e indebitamento («debt-equity ratio»), tale da far presumere un uso elusivo, in termini di risparmio fiscale, della sottocapitalizzazione societaria. La ratio della disposizione normativa risponde all’esigenza di evitare che gli utili derivanti dalla partecipazione in società, indeducibili in sede di determinazione del reddito di quest’ultima, siano trasformati in oneri finanziari deducibili per la società ed assoggettati in capo ai soci ad un regime fiscale più favorevole. Questa Corte, già con la sentenza n. 26489 del 26 novembre 2013, ha definito la capitalizzazione sottile come il fenomeno di sottocapitalizzazione di una società rispetto all’attività d’impresa esercitata e nel contestuale finanziamento della stessa con apporto di capitale di credito da parte dei soci qualificati o da parte ad essi correlate. 11.2. I presupposti dai quali discende il meccanismo di indeducibilità degli interessi sono tre: a) è necessario, in primo luogo, che il rapporto tra la consistenza media durante il periodo d’imposta dei finanziamenti e la quota di patrimonio netto contabile di pertinenza del socio medesimo o delle sue parti correlate, aumentato degli apporti di capitale effettuati dallo stesso socio o da sue parti correlate in esecuzione dei contratti di cui all’art. 109, comma 9, lett. b), sia superiore a quello di quattro ad uno; b) il finanziamento deve derivare da mutui, depositi di denaro o da ogni altro rapporto di natura finanziaria; c) il finanziamento deve essere erogato o garantito da un socio o da una sua parte correlata. In presenza di tali requisiti, il comma 2, lett. b), dell’art. 98 dispone che la regola della thin capitalization non trova applicazione ove la società fornisca la dimostrazione che l’ammontare dei finanziamenti erogati o garantiti dai soci o dalle parti correlate è giustificato dalla oggettiva capacità di ottenere credito con la sola garanzia del proprio patrimonio sociale e che gli stessi sarebbero stati comunque erogati anche da terzi finanziatori. 11.3. In attuazione dell’art. 4, comma 1, lett. g), n. 2, della legge n. 80 del 2003, non rilevano i finanziamenti assunti nell’esercizio dell’attività bancaria o dell’attività svolta dai soggetti richiamati nell’articolo 1 del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 87 (ossia da: 1) banche; 2) società di gestione; 3) società finanziarie capogruppo di gruppi bancari iscritti nell’albo; 4) società previste dalla legge 2 gennaio 1991, n. 1; 5) soggetti operanti nel settore finanziario di cui al titolo V del Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia emanato ai sensi dell’art. 25, comma 2, della legge 19 febbraio 1992, n. 142; 6) e società esercenti altre attività finanziarie indicate nell’art. 59, comma 1, lett. b), del medesimo testo unico bancario). Con specifico riguardo ai soggetti operanti nel settore creditizio e finanziario, le società di cui all’art. 59, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 385 del 1993, che abbiano ad oggetto esclusivo o prevalente l’assunzione di partecipazioni con le caratteristiche indicate dalla Banca d’Italia in conformità alle delibere assunte dal CICR, sono interessate dalla normativa fiscale in materia di sottocapitalizzazione, perché specificamente escluse dal novero dei soggetti per i quali l’art. 98 del t.u.i.r. è irrilevante (art. 98, comma 5, e Circolare Agenzia delle entrate n. 11/E del 17 marzo 2005, par. 2. E 3.3.3.) Come chiarito da autorevole dottrina e dalla circolare n. 11/E del 2005, cit., l’applicazione della regola della thin capitalization opera anche per le società, diverse da quelle indicate dall’art. 59 sopra richiamato, aventi per oggetto esclusivo o principale l’assunzione di partecipazioni, e riguarda, oltre ai soggetti operanti nel settore finanziario e richiamato dagli artt. 106 e 113 del decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385 (Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), anche i soggetti esercenti de facto la medesima attività (cd. holding di fatto), e ciò sia quando l’attività si svolga prevalentemente nei confronti del pubblico, sia quando ciò non avvenga. 11.4. Ai fini dell’assoggettamento di tali società alla norma dell’art. 98 del t.u.i.r. occorre, tuttavia, valutare l’eventuale prevalenza dell’attività finanziaria di «assunzione di partecipazioni» rispetto alle altre attività finanziarie. La circolare sopra indicata, sul punto, richiama i criteri oggettivi di prevalenza enunciati dall’art. 2 del decreto ministeriale del 6 luglio 1994 (recante: «Determinazione, ai sensi dell’art. 113, comma 1, del d.lgs. n. 385 del 1993, dei criteri in base ai quali sussiste l’esercizio in via prevalente, non nei confronti del pubblico, delle attività finanziarie di cui all’art. 106, comma 1»), a sua volta illustrati dalla circolare dell’Amministrazione finanziaria del 4 giugno 1998, n. 141, precisando che la «prevalenza» dell’esercizio di una specifica attività rispetto ad un’altra presuppone la contestuale presenza, in base ai dati dei bilanci relativi agli ultimi due esercizi, dei seguenti elementi patrimoniali e reddituali: a) l’ammontare complessivo degli elementi dell’attivo di natura finanziaria di cui alle attività richiamate dall’art. 106 del d.lgs. n. 385 del 1993, delle altre attività finanziarie contemplate nell’art.1, comma 2, lett. f), numeri da 2 a 12 e 15 del medesimo decreto legislativo, delle attività, anche non finanziarie, strumentali rispetto a una o più delle attività richiamate dall’art. 106, comma 1, deve essere superiore al 50 per cento del totale dell’attivo patrimoniale; b) l’ammontare complessivo dei proventi prodotti dagli elementi dell’attivo sopra richiamati, dei profitti derivanti da operazioni di

indebita percezione del reddito di cittadinanza studio legale pirro milano

INDEBITA PERCEZIONE DEL REDDITO DI CITTADINANZA: cosa rischia chi attesta il falso?

INDEBITA PERCEZIONE DEL REDDITO DI CITTADINANZA Cosa rischia chi attesta il falso? Il reddito di cittadinanza è una misura di politica attiva del lavoro introdotta nel 2019 attraverso le legge n. 4 per contrastare la povertà e l’esclusione sociale dei cittadini. L’erogazione del reddito di cittadinanza è subordinata alla presenza di alcuni presupposti che attengono alle condizioni economiche e patrimoniali del potenziale percettore e della sua famiglia. Difatti, potranno beneficiare del reddito di cittadinanza solo coloro che si trovano in uno stato di disoccupazione e abbiano un ISEE inferiore ai 9.360 euro. In aggiunta, il patrimonio immobiliare non potrà essere superiore ai 30.000 euro e quello mobiliare dovrà essere inferiore ai 6.000 euro, soglia incrementata di 2.000 euro per ogni componente del nucleo familiare.   Tuttavia, le truffe per ottenere indebitamente il reddito di cittadinanza sono all’ordine del giorno. Uno dei modi più comodi per riuscire ad ottenere il sussidio è quello di procedere a dichiarazioni mendaci. Al beneficiario del reddito di cittadinanza, la legge impone, nello specifico, due obblighi informativi, diversi per oggetto e collocazione temporale, e ad essi ricollega due differenti sanzioni. In particolare, l’art. 7 del decreto-legge n. 4 del 2019 stabilisce le conseguenze penali nell’ipotesi di false od omesse dichiarazioni prevedendo che: “chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all’articolo 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni”. Si tratta di un reato connotato da dolo specifico e realizzabile attraverso una pluralità di condotte, attive e omissive, riferite alle informazioni dovute in sede di presentazione della domanda di accesso al beneficio. Dall’altra, il comma 2 stabilisce che nel caso di “omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio” la pena prevista è, invece, la reclusione da 1 a 3 anni  incriminando così il “mancato aggiornamento”. Si tratta di reati volti a tutelare la pubblica amministrazione da falsità, anche mediante omissioni, nelle dichiarazioni necessarie per valutare le condizioni di ammissibilità al beneficio oppure per il suo mantenimento. Non è quindi necessario che, a seguito del mendacio, il danno per lo Stato si sia effettivamente realizzato. INDEBITA PERCEZIONE DEL REDDITO DI CITTADINANZA Cosa rischia chi attesta il falso?   Anche la giurisprudenza ha dato una stretta su questi fenomeni e non lascia scappatoie: in una nuova sentenza la Cassazione ha affermato che la pena detentiva va applicata anche a chi nonostante le false dichiarazioni rese avrebbe avuto comunque diritto alla percezione del reddito. In particolare, la Suprema Corte con sentenza n. 2402/21 ha stabilito che il reato è comunque integrato in base alle “false indicazioni od omissioni di informazioni dovute dei dati di fatto riportati nell’autodichiarazione indipendentemente dall’effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio”. La Corte richiama il dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalle quali riceve un beneficio economico e proprio per questo per violare il “patto di fedeltà” sarà sufficiente rilasciare dichiarazioni mendaci e non è necessario che, in concreto, siano superate le soglie reddituali previste dalla legge.

indennità per perdita dell'avviamento

L’indennità per perdita dell’avviamento di cui all’art. 34 I. n. 392/1978 non costituisce corrispettivo del contratto di locazione e rientra tra le somme dovute a titolo di risarcimento del danno, penalità, ritardi o altre irregolarità nell’adempimento degli obblighi contrattuali di cui all’art. 15 d.P.R. n. 633/1972

L’indennità per perdita dell’avviamento di cui all’art. 34 I. n. 392/1978 non costituisce corrispettivo del contratto di locazione e rientra tra le somme dovute a titolo di risarcimento del danno, penalità, ritardi o altre irregolarità nell’adempimento degli obblighi contrattuali di cui all’art. 15 d.P.R. n. 633/1972, le quali non concorrono a formare la base imponibile IVA. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e accoglie la domanda del contribuente   Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943   FATTI DI CAUSA La società cooperativa contribuente, già locataria di un immobile ad uso non abitativo di durata novennale, ha chiesto all’Erario il rimborso a termini dell’art. 21, comma 2, d. Igs. 31 dicembre 1992, n. 546 dell’IVA – già addebitata in fattura alla proprietaria dei locali Anni Sereni SRL a titolo di rivalsa all’atto del pagamento dell’indennità da perdita di avviamento ex art. 34 I. 27 luglio 1978, n. 392 per cessazione del contratto di locazione – adducendo di avere restituito l’IVA di rivalsa alla locatrice in forza di decreto ingiuntivo del. L’istanza di rimborso dell’IVA, già restituita alla cessionaria, è stata rigettata dall’Agenzia delle Entrate, con la motivazione che l’indennità di cui all’art. 34 I. n. 392/1978 deve considerarsi quale imponibile IVA. A seguito di impugnazione, la CTP ha accolto il ricorso ritenendo la natura risarcitoria dell’indennità di cui all’art. 34 I. n. 392/1978. La CTR, con sentenza ha accolto l’appello dell’Ufficio. Ha ritenuto il giudice di appello che l’indennità di cui all’art. 34 cit. non ha la funzione di ristorare i danni derivati al conduttore dalla perdita del valore dell’avviamento commerciale per effetto della disdetta del contratto alla scadenza da parte del locatore, bensì mira a riconoscere al conduttore un corrispettivo per l’incremento arrecato al valore locatizio dell’immobile; detta indennità non può, pertanto, ad avviso del giudice di appello, avere natura risarcitoria, per cui non può operare l’ipotesi di esenzione dalla base imponibile di cui all’art. 15, comma 1, n. 1 d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in quanto indennità avente natura corrispettiva, costituente parte del corrispettivo della locazione e, pertanto, assoggettabile a IVA. Ha ritenuto, inoltre, il giudice di appello di escludere la natura risarcitoria della indennità in oggetto sul presupposto della insussistenza di alcun comportamento illecito di parte locatrice. Propone ricorso per cassazione la società cooperativa contribuente affidato a un unico motivo di ricorso, ulteriormente illustrato da memoria; l’Ufficio ha depositato atto di costituzione senza proporre difese scritte. RAGIONI DELLA DECISIONE Con l’unico e pluriarticolato motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2, 3 e 15 d.P.R. n. 633/1972, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che l’indennità di perdita dell’avviamento di cui all’art. 34 I. n. 392/1978 non rientra nelle ipotesi di esclusione dalla base imponibile IVA, avendo la suddetta indennità natura corrispettiva e non risarcitoria, in funzione dell’incremento arrecato al valore locativo dell’immobile restituito al proprietario, quale effetto dello svolgimento dell’attività svolta dalla locatrice, prestazione rientrante, pertanto, nel sinallagma contrattuale. Deduce il ricorrente come sia invalso nella giurisprudenza di legittimità l’opposto principio, secondo cui la prestazione in oggetto abbia funzione indennitaria e non costituisca corrispettivo per la remunerazione di un servizio. Rileva, inoltre, come la correlazione dell’indennità all’obbligazione di riconsegna dell’immobile non istituisca una relazione sinallagmatica tra prestazioni contrattuali, costituendo piuttosto un corrispettivo per la cessazione del contratto. Deduce, infine, come l’impostazione secondo cui l’indennità posta a corrispettivo della cessazione del rapporto locatizio è esente da IVA non è in contrasto con la giurisprudenza unionale. 2 – Il ricorso è fondato. 2.1 – La giurisprudenza unionale richiede la sussistenza di un «nesso diretto» tra servizio reso e controvalore ricevuto quale elemento che caratterizza ai fini IVA il corrispettivo di una prestazione, dovendosi accertare che le somme versate costituiscano l’effettivo corrispettivo di una specifica prestazione fornita nell’ambito di un rapporto giuridico in cui avviene uno scambio di reciproche prestazioni. Nella specie, si afferma che la qualificazione di una operazione di scambio «a titolo oneroso» presuppone la sussistenza del suddetto «nesso diretto» fra cessione di beni o prestazione di servizi e corrispettivo effettivamente percepito dal soggetto passivo, nesso che si rinviene qualora tra prestatore e beneficiario intercorra un rapporto giuridico nell’ambito del quale avvenga uno scambio sinallagnnatico di prestazioni, in modo tale da qualificare il corrispettivo percepito dal prestatore quale controvalore effettivo del servizio fornito al beneficiario (Corte di Giustizia UE, 10 gennaio 2019, C-410/17, punto 31; Corte di Giustizia, 22 novembre 2018, ME0 – Servigos de Comunicagòes e Multimédia, C-295/17, punti 39, 40; Corte di Giustizia UE, 18 luglio 2007, Société thermale d’Eugénie-les-Bains, C-277/05, punto 19; Corte di Giustizia UE, 23 marzo 2006, FCE Bank, C-210/04, punto 34; Corte di Giustizia UE, 21 marzo 2002, Kennemer Golf, C-174/00, punto 39). Con particolare riferimento al caso di indennità forfetaria di scioglimento dal vincolo contrattuale (caso del trattenimento della caparra a titolo di indennità forfetaria di recesso), versata ai fini del risarcimento del danno subìto per effetto della rinuncia del cliente, si è ritenuto che tale indennità sia priva di tale nesso diretto con un servizio reso a titolo oneroso, e, in quanto tale, non soggetta a IVA (Corte di Giustizia UE, Société thermale d’Eugénie-les-Bains, cit., Corte di Cassazione – copia non ufficiale mente esigibili, entrambe sorgono quando il rapporto è già 5 di 11 2.2 – In termini con i principi espressi, l’ordinamento di diritto interno esclude, a termini dell’art. 15, comma 1, n. 1) d.P.R. n. 633/1972, dal computo della base imponibile le somme dovute a titolo di penalità per ritardi, come è stato ritenuto – in materia locatizia – dalla Terza Sezione di questa Corte per l’indennità per ritardata riconsegna dell’immobile ex art. 1591 cod. civ. (Cass., Sez. III, 3 ottobre 2013, n. 22592), nonché per l’indennità di cui all’art. 34, comma 1, I. n. 392/1978 oggetto di causa (Cass., Sez. III, 7 giugno 2006, n. 13345). Tale impostazione appare condivisibile, non rinvenendosi il nesso diretto tra prestazione e corrispettivo, nel