AVVISO DI ACCERTAMENTO ILLEGITTIMO PERCHE’ MANCA LA PROVA DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE

PROCESSO TRIBUTARIO

L’amministrazione finanziaria erroneamente contestava fatture soggettivamente inesistenti nell’ambito di operazioni transnazionali.

La commissione tributaria regionale della Lombardia accoglie, a differenza della CTP di Milano,  le doglianze del ricorrente ed in riforma della sentenza di primo grado annulla l’avviso di accertamento impugnato

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IL PROCESSO

Sentenza n. 4372 del 07/11/2019 della Commissione Tributaria Regionale per la Lombardia.

Con ricorso tempestivamente presentato alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano, la società ricorrente, R. s.r.l., impugnava l’avviso d’accertamento emesso rilevando l’indebita detrazione IVA operata dalla contribuente, nel contesto di una presunta frode carosello tramite “missing traders”.

Ciò che veniva contestato, nello specifico, era il ricorso a una società cartiera che avrebbe consentito un’indebita detrazione dell’IVA, risultando quest’ultima acquirente di merce estera che, in realtà, veniva inviata direttamente alla impresa utilizzatrice, mentre all’intermediario sarebbero state inviate unicamente le fatture di acquisto comunitario. La società utilizzatrice della merce estera riceveva quindi la merce dal fornitore comunitario, ma la fattura riportava IVA a credito, in quanto emessa dalla cartiera italiana.

Questo sarebbe stato il meccanismo al quale la R. s.r.l. avrebbe quantomeno consapevolmente partecipato, assumendo la veste di acquirente e giovandosi di fatture soggettivamente false.

L’Ufficio riprendeva perciò le componenti negative di reddito corrispondenti alle operazioni sottostanti alle fatture contestate, per le annualità 2010, 2011, 2012 e 2013, tutte oggetto di separati atti d’accertamento.

La contribuente impugnava i singoli atti, articolando cinque motivi di ricorso, come di seguito riassunti.

In via preliminare, contestava la violazione del combinato disposto degli artt. 43 co. 1 d.P.R. 600/1973 e 57 co. 1 d.P.R. 633/1972, con riferimento al raddoppio dei termini invocato dall’ufficio, in forza dell’esistenza di indagini penali delle quali però non vi era prova documentale.

In secondo luogo, contestava la violazione dell’art. 19 d.P.R. 633/1972, in punto di detrazione IVA, nonché delle norme concernenti la compilazione della CMR.

Ancora, eccepiva la violazione dell’art. 7 del d.lgs. 212/2000, in punto di carenza della motivazione dell’atto impugnato e, infine, il fatto che l’avviso di accertamento fosse basato su un processo verbale di constatazione redatto dai funzionari della DRE, ritenuta incompetente nel caso di specie.

L’Agenzia delle entrate si costituiva in giudizio formulando le proprie controdeduzioni, con le quali ribatteva alle eccezioni del ricorrente e chiedeva l’integrale rigetto del ricorso.

Udite le conclusioni delle parti, presenti all’udienza del 7 maggio 2018, la Commissione Tributaria Provinciale di Milano respingeva il ricorso della contribuente, condannandola alla rifusione delle spese processuali.

La società proponeva quindi appello, reiterando la contestazione relativa al raddoppio dei termini di cui aveva fruito l’ufficio accertatore.

Secondo l’appellante, ciò era avvenuto in violazione del combinato disposto degli artt. 43 co. 1 d.P.R. 600/1973 e 57 co. 1 d.P.R. 633/1972, poiché la trasmissione della notizia di reato sarebbe intervenuta una volta spirati i termini decadenziali di legge.

Con il secondo motivo, eccepiva la violazione dell’art. 36 d.lgs. 546/1992, poiché la motivazione della sentenza di primo grado sarebbe solo apparente, non esplicitando il percorso argomentativo seguito dal giudicante, ma, soprattutto, mancando di dar conto di taluni specifici motivi di ricorso e allegazioni del contribuente (con particolare riferimento alla querela depositata alla Procura di Monza nei confronti del legale rappresentante della società T.).

Con il terzo motivo, si doleva del fatto che il giudicante avesse integralmente recepito la ricostruzione dei fatti operata dall’amministrazione finanziaria, rinunciando a un esame critico degli elementi dedotti in giudizio.

Più specificamente, lamentava le affermazioni del Giudice in ordine all’assenza di valide ragioni economiche sottostanti i rapporti intercorsi tra la R. e la T., dalla quale avrebbe invece acquistato risme di carta con uno sconto pari al 10% rispetto al valore di mercato, trattandosi di beni offerti come giacenze di magazzino.

Aggiungeva inoltre di essersi avvalsa di una preliminare attività di controllo da parte di una nota società di informazione commerciale (“L.”), da cui era risultato un grado di affidabilità della controparte pari a 72,0 punti (buono) e un indice di solidità finanziaria pari a 9,90 punti (ottimo).

Ne deduceva che mai in alcun modo avrebbe potuto immaginare che la società T. fosse in realtà una cartiera priva di autonoma organizzazione imprenditoriale e avente natura fittizia, come invece stabilito apoditticamente dall’Agenzia delle entrate e dalla CTP milanese.

Svolgeva quindi ulteriori argomenti in ordine alla buona fede e all’assenza di dolo o colpa in capo alla ricorrente, nella fase di individuazione e selezione della controparte contrattuale T.

Ancora, si lamentava del fatto che né l’Agenzia delle entrate, né il Giudice di primo grado avessero mai spiegato esattamente: se la ricorrente fosse un mero soggetto interposto o un compartecipe della truffa; sulla base di quali elementi si dovesse ritenere provata l’interposizione fittizia della cartiera, rispetto agli scambi posti in essere tra T. e R.; le modalità con cui si sarebbe realizzata la presunta frode; la presenza di riscontri o indagini bancarie a supporto della tesi accusatoria; il prezzo del reato commesso dalla società T.; da quali elementi sia stata dedotta la consapevolezza da parte del cessionario R. che le operazioni commerciali poste in essere fossero iscritte in tale disegno criminoso.

Affermava inoltre non fosse mai stata dimostrata la mancata esecuzione della cessione dal fatturante, l’assenza di organizzazione e l’inoperatività della cartiera.

Eccepiva, quindi, il difetto di motivazione del provvedimento originariamente impugnato e, conseguentemente, della sentenza di primo grado.

Con il quarto e ultimo motivo, riproponeva la censura concernente l’infondatezza dell’avviso di accertamento fondato su un PCV redatto dai funzionari della DRE, ufficio antifrode, organo ritenuto incompetente, giacché dotato di poteri d’accertamento nei confronti dei soggetti con volume d’affari non inferiore a cento milioni di euro, mentre il volume di affari della R. all’epoca superava di poco i tre milioni di euro.

Concludeva chiedendo la sospensione cautelare degli effetti dell’atto originariamente impugnato.

Si è costituita in appello l’Agenzia delle entrate convenuta, che ha depositato le proprie controdeduzioni.

L’Ufficio, dal canto proprio, ha ricostruito i fatti da cui è scaturito l’odierno giudizio, in particolare il fatto che, da un’indagine di più ampio respiro, era emerso che la R. s.r.l., nel suo processo produttivo, si era avvalsa in più occasioni di merce intracomunitaria, le cui forniture, tuttavia, erano documentate da fatture italiane di società sconosciute al fisco.

Ha formulato poi le proprie argomentazioni a sostegno della correttezza della pronuncia del Giudice di prime cure, soffermandosi, in particolare, a ribadire il fatto che dalle ricostruzioni operate era emerso come la società R. fosse pienamente consapevole di acquistare “cartolarmente” merce da soggetti del tutto privi di autonomia patrimoniale, organizzativa e decisionale, che rivestivano appunto il ruolo di missing traders, al fine di simulare un acquisto italiano di merce in realtà di provenienza estera.

I rapporti con tale società, secondo l’appellata, erano infatti tutti intrattenuti dal sig. R.i, reale amministratore della R., che indistintamente operava con gli operatori comunitari (come per es. To. ) e con il soggetto fittiziamente interposto, con la differenza che nel secondo caso, benché i prezzi unitari fossero sostanzialmente gli stessi, sulle fatture era esposta l’IVA.

Riteneva quindi legittimamente motivati i provvedimenti adottati, così come la sentenza resa in primo grado.

Alla pubblica udienza tenutasi in data 27 settembre 2019 la causa è stata posta in decisione sulle conclusioni rassegnate dalle parti presenti e rappresentate in udienza.

I MOTIVI

Questa Commissione accoglie l’appello, ritenendo non debitamente soddisfatto l’onere della prova incombente sull’Ufficio, in ordine alla conoscenza o conoscibilità da parte del contribuente dell’inesistenza soggettiva della società “missing trader”.

A differenza di quanto affermato dai Giudici di prime cure, l’Amministrazione finanziaria non ha dettagliato un percorso motivazionale che possa dirsi sufficiente a costituire la prova richiesta, che avrebbe finanche potuto essere presuntiva, purché fondata su elementi indiziari gravi precisi e concordanti.

Dal canto proprio, invece, la società contribuente ha offerto principi di prova in merito al fatto di aver agito, in ordine ai rapporti intrattenuti con la società T., con la cautela che le era richiesta ex anteladdove ha fatto ricorso alle prestazioni della società di consulenza “L.” per svolgere indagini preventive sul conto della stessa, ma anche ex postavendo provveduto a querelare il legale rappresentante della controparte contrattuale.

Così ricostruito il quadro complessivo del riparto dell’onere probatorio, per come rispettivamente incombente in capo all’Amministrazione finanziaria e al soggetto contribuente, si può procedere ordinatamente (…) L’art. 2727 c.c. dispone, in materia di presunzioni semplici, che la parte gravata dall’onere della prova deve dimostrare al giudice che dal “fatto noto” è possibile provare il “fatto ignoto”, poiché sussistono “presunzioni gravi, precise e concordanti” che fanno ritenere verosimile l’effettiva concretizzazione del fatto non noto.

Nel caso qui in rassegna, l’Ufficio ha emesso l’avviso di accertamento poi impugnato, fondandolo sul presupposto che la società T. fosse una “cartiera”, cioè un soggetto fittizio, circostanza da cui ha dedotto l’inesistenza soggettiva dell’operazione di triangolazione e, quantomeno, la consapevolezza da parte dell’odierno appellante della sua partecipazione a un meccanismo di frode basato su tale interposizione fittizia.

Il fatto noto è che la società T. corrisponda ai profili tipici della società “cartiera”: apparentemente residente in Italia, ma sconosciuta al fisco, ha omesso di presentare le dichiarazioni tributarie e di versare le relative imposte per tutte le annualità in cui ha avuto rapporti con l’odierna appellante.

Il fatto ignoto, di cui l’ufficio deve dare prova, riguarda l’ipotesi che l’odierna appellante sia consapevole destinataria/utilizzatrice di fatture soggettivamente inesistenti.

La relazione probabilistica tra fatto noto e fatto ignoto che, si vuole ribadire, incombeva sull’autorità tributaria, non risulta tuttavia adeguatamente dimostrata né in sede amministrativa, nell’avviso di accertamento impugnato, né in sede processuale, negli atti di controdeduzioni depositati.

L’Ufficio ha essenzialmente basato il proprio ragionamento inferenziale su due (…) indizi che non possono considerarsi né gravi, né precisi, né concordanti e, come tali, inidonei a integrare la presunzione semplice necessaria a “ribaltare” l’onere probatorio sul contribuente.

Anzitutto, il fatto che alcuni dipendenti della società appellante fossero in diretto contatto con le società estere che fornivano i beni finali, o con società di intermediazione loro direttamente riferibili, è circostanza indiziaria di per sé priva del requisito della gravità, ma anche di quello della precisione.

È lo stesso ufficio infatti a spiegare che la R. nelle annualità oggetto di contestazione si rifornisse contemporaneamente sia tramite tali società estere, sia tramite la T., peraltro ottenendo prezzi di acquisto sovrapponibili, sebbene nel primo caso si trattasse di operazioni esenti IVA, mentre nel secondo di operazioni soggette a imposta, dunque generatrici del diritto alla detrazione.

L’Agenzia delle entrate ha quindi adombrato l’ipotesi che in capo alla R. vi fosse un vantaggio economico diretto nelle operazioni compiute con la T., derivante proprio dalla possibilità di detrazione dell’imposta, da cui sarebbe conseguito un abbattimento del prezzo finale dei beni acquistati.

Tale convincimento, tuttavia, non dà conto, per esempio, di quale sarebbe il vantaggio economico in capo alle società estere fornitrici dei beni – posto che è chiaro invece lo scopo dell’esistenza della Cartiera – né del perché R. si servisse della T. per alcuni acquisti e, invece, per altri, direttamente dei fornitori esteri per altri.

Gli scambi con la cartiera, peraltro, paiono quantitativamente risibili rispetto a un volume d’affari tutt’altro che modesto (oltre tre milioni di euro).

Dal canto proprio, invece, l’appellante ha chiarito perché ha acquistato alcune forniture di carta tramite la T., motivando tale scelta sulla base del vantaggio economico derivante dalla svendita di partite di carta rimaste nella disponibilità dalla controparte, poiché invendute.

Questa spiegazione risulta verosimile e giustifica altresì perché la R. abbia concluso accordi commerciali per l’acquisto di carta con una società il cui scopo sociale afferiva principalmente all’ambito informatico e, solo subordinatamente, all’attività tipografica/litografica.

Nelle proprie controdeduzioni, l’Ufficio prende atto del fatto che la R. si sia affidata alla consulenza della “L.”, per indagare l’effettività e solidità economica della controparte, ma trattata la circostanza come se fosse sostanzialmente irrilevante, dando invece rilievo all’ipotesi secondo cui – volendo agire prudentemente e in buona fede – alla R. sarebbe stato sufficiente effettuare una visura camerale per rendersi conto che la controparte operava in modo sospetto sul mercato della carta e, dunque, decidere di contrarre con altro operatore sul mercato.

Aggiungeva poi che l’appellante avrebbe dovuto comunque chiedere alla T. prova del regolare pagamento dei tributi dovuti in relazione alle fatture emesse.

Tale ricostruzione non solo è del tutto apodittica, ma risulta anche contrastante con i già menzionati principi giurisprudenziali di legittimità ed europei.

È anzitutto evidente che non si possa esigere dal soggetto contribuente alcuna verifica in ordine alla fedeltà tributaria della controparte contrattuale (in tal senso si era già espressa la CGUE, sent. 3 marzo 2004, C-395/02.), esulando tale pretesa dal normale svolgimento dei rapporti commerciali, così come dai doveri del contribuente, su cui non incombe alcun obbligo di solidarietà con l’amministrazione finanziaria nella ricerca degli evasori, ma piuttosto il divieto di agevolarne – anche solo passivamente – l’attività (sul punto cfr. SS.UU. Cass., sent. 12 settembre 2017, n. 21105, sub. 5.3).

Ugualmente irragionevole è l’affermazione che la società avrebbe dovuto preferire procedere a una visura camerale, piuttosto che ricorrere a una società specializzata nelle indagini sull’affidabilità commerciale, trattandosi, in questo caso, di una scelta di carattere imprenditoriale, come tale insindacabile.

Pur ritenendo che l’Amministrazione finanziaria non abbia assolto l’onere della prova che gli faceva capo – circostanza che sarebbe di per sé sufficiente a considerare illegittimo il provvedimento adottato e, conseguentemente, a riformare la sentenza di primo grado che ne ha confermato la bontà – pare comunque opportuno porre in evidenza i contro-argomenti offerti dalla appellante in ordine alla cosiddetta “prova di resistenza”.

Sicura rilevanza deve assumere il parere rilasciato dalla società di informazione commerciale “L.”, già allegato al ricorso presentato davanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano, elemento idoneo a far ritenere che la ricorrente abbia operato con quella diligenza che si può pretendere dal medio operatore commerciale.

Ancor più solida, benché non considerata dal giudice di prime cure, è la circostanza che la legale rappresentante della R. abbia proceduto a segnalare all’autorità giudiziaria il legale rappresentante della società T., con atto di esposto/denuncia depositato in data 4 aprile 2013 presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Monza.

Si tratta di una circostanza che riprova il ricorso a normale diligenza da parte dell’appellante e, quantomeno, mette in discussione la tesi dell’accertatore in ordine alla connivenza rispetto al meccanismo fraudolento, essendo del tutto evidente che una tale presa di distanza dall’operato della controparte contrattuale – peraltro intervenuta prima dell’avvio dell’accertamento fiscale – non possa trovare corrispondenza in una ricostruzione della frode carosello che allude a presunti benefici in capo alla R. (IVA detratta) che sarebbero economicamente sovrapponibili a quelli ottenuti dalla cartiera (IVA non versata).

Sarebbe perlomeno insolito che una società coinvolta consapevolmente in una frode carosello, prima ancora di essere oggetto di un avviso d’accertamento contenente rilievi sul punto, presenti una denuncia/esposto all’autorità giudiziaria, addossandosi il rischio che l’apertura delle indagini possa investire anche il suo operato.

La circostanza che la contribuente abbia provveduto a denunciare la controparte in relazione a alcune delle fatture considerate dagli accertatori come frutto di operazioni soggettivamente non esistenti, potrebbe peraltro dare luogo all’applicazione della scriminante prevista dall’art. 6 co. 3 del d.lgs. 472/1997, che prevede che il contribuente, il sostituto e il responsabile d’imposta non siano punibili “quando dimostrano che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi“.

I motivi in esame vanno pertanto accolti, mentre restano assorbiti tutti gli altri motivi.

Le spese, in considerazione delle più recenti disposizioni normative, seguono la soccombenza

Studio legale Tributario Pirro Milano

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3475404943

P.Q.M.

La Commissione accoglie l’appello ed in riforma della sentenza di primo grado annulla l’avviso di accertamento impugnato.

Condanna l’Ufficio alla rifusione delle spese di lite del doppio grado di giudizio che si liquidano in favore dell’appellante in complessivi euro 9.000,00 (novemila,00) oltre accessori di legge.