Mese: Ottobre 2020

IL RIMBORSO DELL’ADDIZIONALE IRPEF NON DOVEVA ESSERE NEGATO ALL’AMMINISTRATORE DI SPA

PROCESSO TRIBUTARIO A seguito di diniego di rimborso dell’imposta addizionale IRPEF sugli emolumenti dei dirigenti la società per azioni ricorreva in commissione tributaria provinciale, che confermava le ragioni della ricorrente. L’Agenzia delle Entrate riproponeva, però, le proprie doglianze in appello. Vittoria della società contribuente anche in secondo grado. Studio legale Tributario Pirro Milano studiopirro@libero.it 3475404943 IL PROCESSO Sentenza n. 3949 del 2019 della Commissione tributaria Regionale della Lombardia Con ricorso depositato in data 11 gennaio 2017, L. G. S.p.A. ha impugnato il diniego di rimborso dell’imposta addizionale IRPEF sugli emolumenti dei dirigenti, prevista dall’art. 33 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, relativa al periodo di imposta 2011, emesso in data 21 ottobre 2016. Dopo aver messo in luce che l’art. 33 del d.l. n. 78 del 2010 aveva previsto l’assoggettamento delle forme di retribuzione variabile degli amministratori di società ad un’addizionale IRPEF pari al 10%, al ricorrere di specifiche condizioni, la ricorrente ha asserito che in relazione all’esercizio 2011 aveva trattenuto e versato l’importo di euro 149.040,60 riferito alla retribuzione del proprio amministratore R. C.. Peraltro, a seguito di successiva verifica, ritenendo che le somme non fossero dovute, la L. G. s.p.a. ha chiesto il rimborso di quanto versato e, a fronte del provvedimento di rigetto, ha proposto ricorso deducendo l’errata individuazione del presupposto dell’imposizione addizionale IRPEF sugli elementi variabili, poiché la stessa avrebbe dovuto applicarsi solo ai soggetti operanti nel settore finanziario e non a quelli che svolgono la loro attività nelle holding industriali, quale doveva essere considerata la ricorrente. Ha concluso, chiedendo che venisse dichiarato illegittimo l’atto impugnato, con conseguente condanna dell’Agenzia delle Entrate al rimborso dell’importo di euro 149.040,60, oltre ad interessi. Con memoria depositata in data 7 febbraio 2017 si costituiva l’Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale della Lombardia contestando l’interpretazione delle condizioni di applicazione dell’art. 33 del d.l. n. 78 del 2010 effettuata dalla ricorrente e ribadendo che nel settore finanziario dovevano essere comprese anche le società che avessero fra le loro attività quelle di assunzione di partecipazione, vale a dire le società holding. La CTP di Milano accoglieva il ricorso e disponeva il rimborso dell’importo richiesto. Rilevavano i primi giudici come l’ufficio avesse opposto il diniego di rimborso dell’imposta addizionale IRPEF sugli emolumenti dei dirigenti della società ricorrente, prevista dall’art. 33 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, relativa al periodo di imposta 2011, emesso in data 21 ottobre 2016. La richiesta di rimborso era fondata sulla ritenuta inapplicabilità della norma alle holding industriali, quale era da considerare la ricorrente. Rilevavano ancora che l’art. 33 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modificazioni, prevedeva che “1. In dipendenza delle decisioni assunte in sede di G20 e in considerazione degli effetti economici potenzialmente distorsivi propri delle forme di remunerazione operate sotto forma di bonus e stock options, sui compensi a questo titolo, che eccedono il triplo della parte fissa della retribuzione, attribuiti ai dipendenti che rivestono la qualifica di dirigenti nel settore finanziario nonché ai titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa nello stesso settore è applicata una aliquota addizionale del 10 per cento. 2. L’addizionale è trattenuta dal sostituto d’imposta al momento di erogazione dei suddetti emolumenti e, per l’accertamento, la riscossione, le sanzioni e il contenzioso, è disciplinata dalle ordinarie disposizioni in materia di imposte sul reddito. 2-bis. Per i compensi di cui al comma 1, le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano sull’ammontare che eccede l’importo corrispondente alla parte fissa della retribuzione”. La disposizione era stata dettata, in relazione ad accordi internazionali, per omogeneizzare il trattamento fiscale delle retribuzioni e dei compensi nell’ambito del settore finanziario. Trattandosi di norma di deroga al regime ordinario l’applicazione doveva essere riferita al solo settore che il legislatore aveva inteso disciplinare in modo speciale. Al fine di fornire criteri applicativi omogenei, l’Agenzia delle Entrate aveva emanato una circolare con la quale aveva asserito che nel settore finanziario rientravano le banche, gli intermediari finanziari e le società la cui attività consistesse in via principale o esclusiva nell’assunzione di partecipazioni in base alla previsione dell’art. 59, co. 1, lett. b del D. Lgs. n. 385 del 1993 (Circolare n. 4/E del 15 febbraio 2011). Sempre secondo la CTP la Circolare dell’Amministrazione finanziaria era elemento utile ai fini dell’interpretazione delle norme e, sicuramente, vincolante per gli uffici finanziari, anche per evitare difformità comportamentali. Tuttavia non poteva considerarsi fonte del diritto e non era idonea a vincolare il giudice, trattandosi di atto privo di valenza normativa. Nel caso di specie, l’interpretazione della norma fornita dalla Circolare non era condivisibile poiché ampliava in modo indebito la nozione di settore finanziario, come, peraltro, era stato sottolineato dalla Corte costituzionale che aveva ritenuto la norma non in contrasto con la Costituzione poiché la “ragione che ha indotto il legislatore a prevedere il prelievo addizionale di cui alla disposizione censurata, ossia l’intento – coerente con il coevo atteggiamento manifestatosi a livello internazionale – di scoraggiare modalità remunerative variabili considerate pericolose per la stabilita finanziaria” (Corte Cost. 16 luglio 2014, n. 201). Il riferimento al mercato finanziario e la finalità della norma escludevano, pertanto, che l’obbligo fosse applicabile a soggetti diversi da quelli individuati dalla disposizione e, in particolare per quanto di interesse in questa sede, ai dipendenti ed amministratori delle holding che operano nel settore industriale. Fondata era quindi la richiesta di rimborso di L. G. S.p.A. per l’importo di euro 149.040,00. La sentenza veniva impugnata dall’Agenzia delle entrate che con un unico motivo censurava la decisione per non aver ricompreso nell’ambito del settore finanziario anche le holding industriali, quale è la società L. G. spa. I MOTIVI In particolare, secondo l’Ufficio appellante, che richiamava la Circolare n. 4/E del 15 febbraio 2011, in mancanza di una espressa definizione di “settore finanziario”, il citato art. 33 DL. 78/2010 andava interpretato facendo “necessariamente riferimento alle norme in vigore al momento in cui l’addizionale .. è stata introdotta” (cioè 31 maggio 2010), con l’effetto che dovevano ritenersi assoggettate all’addizionale Irpef del 10% anche le holding industriali: -in base al D.lgs. 87/1992 (Attuazione della direttiva n. 86/635/CEE, relativa ai conti annuali ed ai conti consolidati delle banche e degli altri istituti finanziari) che, all’art. 1, vigente alla data del 30 maggio

AVVISO DI ACCERTAMENTO ILLEGITTIMO PERCHE’ MANCA LA PROVA DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE

PROCESSO TRIBUTARIO L’amministrazione finanziaria erroneamente contestava fatture soggettivamente inesistenti nell’ambito di operazioni transnazionali. La commissione tributaria regionale della Lombardia accoglie, a differenza della CTP di Milano,  le doglianze del ricorrente ed in riforma della sentenza di primo grado annulla l’avviso di accertamento impugnato Studio legale Tributario Pirro Milano studiopirro@libero.it 3475404943 IL PROCESSO Sentenza n. 4372 del 07/11/2019 della Commissione Tributaria Regionale per la Lombardia. Con ricorso tempestivamente presentato alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano, la società ricorrente, R. s.r.l., impugnava l’avviso d’accertamento emesso rilevando l’indebita detrazione IVA operata dalla contribuente, nel contesto di una presunta frode carosello tramite “missing traders”. Ciò che veniva contestato, nello specifico, era il ricorso a una società cartiera che avrebbe consentito un’indebita detrazione dell’IVA, risultando quest’ultima acquirente di merce estera che, in realtà, veniva inviata direttamente alla impresa utilizzatrice, mentre all’intermediario sarebbero state inviate unicamente le fatture di acquisto comunitario. La società utilizzatrice della merce estera riceveva quindi la merce dal fornitore comunitario, ma la fattura riportava IVA a credito, in quanto emessa dalla cartiera italiana. Questo sarebbe stato il meccanismo al quale la R. s.r.l. avrebbe quantomeno consapevolmente partecipato, assumendo la veste di acquirente e giovandosi di fatture soggettivamente false. L’Ufficio riprendeva perciò le componenti negative di reddito corrispondenti alle operazioni sottostanti alle fatture contestate, per le annualità 2010, 2011, 2012 e 2013, tutte oggetto di separati atti d’accertamento. La contribuente impugnava i singoli atti, articolando cinque motivi di ricorso, come di seguito riassunti. In via preliminare, contestava la violazione del combinato disposto degli artt. 43 co. 1 d.P.R. 600/1973 e 57 co. 1 d.P.R. 633/1972, con riferimento al raddoppio dei termini invocato dall’ufficio, in forza dell’esistenza di indagini penali delle quali però non vi era prova documentale. In secondo luogo, contestava la violazione dell’art. 19 d.P.R. 633/1972, in punto di detrazione IVA, nonché delle norme concernenti la compilazione della CMR. Ancora, eccepiva la violazione dell’art. 7 del d.lgs. 212/2000, in punto di carenza della motivazione dell’atto impugnato e, infine, il fatto che l’avviso di accertamento fosse basato su un processo verbale di constatazione redatto dai funzionari della DRE, ritenuta incompetente nel caso di specie. L’Agenzia delle entrate si costituiva in giudizio formulando le proprie controdeduzioni, con le quali ribatteva alle eccezioni del ricorrente e chiedeva l’integrale rigetto del ricorso. Udite le conclusioni delle parti, presenti all’udienza del 7 maggio 2018, la Commissione Tributaria Provinciale di Milano respingeva il ricorso della contribuente, condannandola alla rifusione delle spese processuali. La società proponeva quindi appello, reiterando la contestazione relativa al raddoppio dei termini di cui aveva fruito l’ufficio accertatore. Secondo l’appellante, ciò era avvenuto in violazione del combinato disposto degli artt. 43 co. 1 d.P.R. 600/1973 e 57 co. 1 d.P.R. 633/1972, poiché la trasmissione della notizia di reato sarebbe intervenuta una volta spirati i termini decadenziali di legge. Con il secondo motivo, eccepiva la violazione dell’art. 36 d.lgs. 546/1992, poiché la motivazione della sentenza di primo grado sarebbe solo apparente, non esplicitando il percorso argomentativo seguito dal giudicante, ma, soprattutto, mancando di dar conto di taluni specifici motivi di ricorso e allegazioni del contribuente (con particolare riferimento alla querela depositata alla Procura di Monza nei confronti del legale rappresentante della società T.). Con il terzo motivo, si doleva del fatto che il giudicante avesse integralmente recepito la ricostruzione dei fatti operata dall’amministrazione finanziaria, rinunciando a un esame critico degli elementi dedotti in giudizio. Più specificamente, lamentava le affermazioni del Giudice in ordine all’assenza di valide ragioni economiche sottostanti i rapporti intercorsi tra la R. e la T., dalla quale avrebbe invece acquistato risme di carta con uno sconto pari al 10% rispetto al valore di mercato, trattandosi di beni offerti come giacenze di magazzino. Aggiungeva inoltre di essersi avvalsa di una preliminare attività di controllo da parte di una nota società di informazione commerciale (“L.”), da cui era risultato un grado di affidabilità della controparte pari a 72,0 punti (buono) e un indice di solidità finanziaria pari a 9,90 punti (ottimo). Ne deduceva che mai in alcun modo avrebbe potuto immaginare che la società T. fosse in realtà una cartiera priva di autonoma organizzazione imprenditoriale e avente natura fittizia, come invece stabilito apoditticamente dall’Agenzia delle entrate e dalla CTP milanese. Svolgeva quindi ulteriori argomenti in ordine alla buona fede e all’assenza di dolo o colpa in capo alla ricorrente, nella fase di individuazione e selezione della controparte contrattuale T. Ancora, si lamentava del fatto che né l’Agenzia delle entrate, né il Giudice di primo grado avessero mai spiegato esattamente: se la ricorrente fosse un mero soggetto interposto o un compartecipe della truffa; sulla base di quali elementi si dovesse ritenere provata l’interposizione fittizia della cartiera, rispetto agli scambi posti in essere tra T. e R.; le modalità con cui si sarebbe realizzata la presunta frode; la presenza di riscontri o indagini bancarie a supporto della tesi accusatoria; il prezzo del reato commesso dalla società T.; da quali elementi sia stata dedotta la consapevolezza da parte del cessionario R. che le operazioni commerciali poste in essere fossero iscritte in tale disegno criminoso. Affermava inoltre non fosse mai stata dimostrata la mancata esecuzione della cessione dal fatturante, l’assenza di organizzazione e l’inoperatività della cartiera. Eccepiva, quindi, il difetto di motivazione del provvedimento originariamente impugnato e, conseguentemente, della sentenza di primo grado. Con il quarto e ultimo motivo, riproponeva la censura concernente l’infondatezza dell’avviso di accertamento fondato su un PCV redatto dai funzionari della DRE, ufficio antifrode, organo ritenuto incompetente, giacché dotato di poteri d’accertamento nei confronti dei soggetti con volume d’affari non inferiore a cento milioni di euro, mentre il volume di affari della R. all’epoca superava di poco i tre milioni di euro. Concludeva chiedendo la sospensione cautelare degli effetti dell’atto originariamente impugnato. Si è costituita in appello l’Agenzia delle entrate convenuta, che ha depositato le proprie controdeduzioni. L’Ufficio, dal canto proprio, ha ricostruito i fatti da cui è scaturito l’odierno giudizio, in particolare il fatto che, da un’indagine di più ampio respiro, era emerso che la R. s.r.l., nel suo processo produttivo, si era avvalsa in più occasioni di merce intracomunitaria, le cui forniture, tuttavia, erano documentate da

AGENZIA DELLE ENTRATE OBBLIGATA DAL GIUDICE A RIMBORSARE IL CREDITO IVA CHE ERA ILLEGITTIMAMENTE NEGATO

Ditta individuale oramai cessata impugna un avviso di accertamento per diniego di rimborso del credito IVA a seguito di istanza di rimborso asseritamente tardiva. Studio legale Tributario Pirro Milano studiopirro@libero.it 3475404943 Ordinanza della Cassazione Sezione sesta n. 17495del 2020. Una persona fisica, già titolare della ditta individuale, aveva maturato nell’anno d’imposta oggetto di accertamento un credito IVA. La contribuente istaura il contenzioso tributario avverso la sentenza n. 4440/15/2018 della Commissione tributaria regionale della Lombardia, depositata il 22/10/2018; Il contenzioso tributario Il rimborso era stato negato a causa della asserita (da parte dell’Agenzia delle Entrate) tardività dell’istanza. Prima che il ricorso arrivasse in Cassazione In controversia la contribuente, quale titolare della ditta individuale cessata, aveva maturato un credito IVA nel predetto anno d’imposta ed indicato nel quadro RX della dichiarazione Mod. Unico. Con la sentenza impugnata la CTR accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sfavorevole sentenza di primo grado, sostenendo che la contribuente aveva compilato il quadro RX4 ed indicato il credito nella colonna IV, ovvero tra quelli da portare in compensazione, sicché l’istanza di rimborso doveva ritenersi tardiva perché avanzata in data oltre il termine biennale di cui all’art. 21 d.lgs. n. 546 del 1992; avverso tale statuizione ricorre per cassazione la contribuente sulla base di un unico motivo. Il motivo di impugnazione accolto Con il motivo di ricorso la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 30 e 38 bis del d.P.R. n. 633 del 1972, 21 d.lgs. n. 546 del 1992 e 2946 cod. civ., censurando la sentenza d’appello che aveva escluso il rimborso del credito d’imposta vantato per avere erroneamente ritenuto tardiva l’istanza anche nell’ipotesi di cessazione dell’attività;  il motivo è manifestamente fondato; secondo il consolidato orientamento di questa Corte la domanda di rimborso del credito d’imposta maturato dal contribuente deve considerarsi già presentata con la compilazione del corrispondente quadro della dichiarazione annuale (“RX4”), la quale configura formale esercizio del diritto, con la precisazione che, ove si tratti – come nel caso di specie – di richiesta di rimborso relativa all’eccedenza d’imposta risultata alla cessazione dell’attività, la fattispecie è regolata dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30, comma 2, e la richiesta è soggetta al termine di prescrizione ordinario decennale, non a quello biennale di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, applicabile in via sussidiaria e residuale, solo in mancanza di disposizione specifiche; e ciò in quanto l’attività non prosegue, sicché non sarebbe possibile portare l’eccedenza in detrazione, e tanto meno in compensazione, l’anno successivo (Cass. n. 9941 del 2015, n. 2005 del 2014; nn. 7684, 7685 e 14070 del 2012; nn. 13920 e 20039 del 2011; nn. 9794 e 25318 del 2010; n. 27948 del 2009), non essendo neppure necessaria la presentazione del modello VR che costituisce, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38 bis, solo un presupposto per l’esigibilità del credito e, dunque, un adempimento prodromico al procedimento di esecuzione del rimborso (ex plurimis, Cass. nn. 4592 e 4857 del 2015; nn. 10653, 20069 e 26867 del 2014; n. 14070 del 2012; n. 20039 del 2011); è peraltro evidente che non può disconoscersi il rimborso del credito IVA alla contribuente per avere quest’ultima avanzato richiesta di compensazione (e non di rimborso) in sede di dichiarazione annuale, in quanto, non essendo sorto un debito IVA della contribuente (che ha cessato l’attività), non può dirsi verificato l’effetto estintivo di cui all’art. 1242 cod. civ.; inoltre, si è correttamente osservato (cfr. Cass. n. 9941 del 2015), che la prospettata «soluzione ermeneutica è del resto coerente con il diritto eurounitario, poiché, se è vero che gli Stati membri adottano le misure necessarie ad assicurare l’osservanza degli obblighi di dichiarazione e di pagamento, l’esatta riscossione dell’imposta e la prevenzione di frodi, tuttavia è pur vero che tali misure non possono eccedere gli obiettivi sopra indicati (v. Corte di giustizia, 11 dicembre 2014, in causa C-590/14, Idexx; 8 maggio 2008, in causa C- 95/07 e C-96/07, Ecotrade; 27 settembre 2007, in causa C- 146/05, Coilee), essendo il diritto al ristoro dell’Iva versata “a monte” basilare nel sistema comunitario, in forza del principio di neutralità (cfr. Corte di giustizia, 22 dicembre 2010, in causa C- 438/09, Dankowski, p.to 34, con riguardo al caso di cessazione d’attività; 18 dicembre 1997, in cause riunite C-286/94, C-340/95, C- 401/95, C-47/96, Molenheide e altri). Deve quindi ritenersi ormai definitivamente superato il diverso e più risalente orientamento secondo cui, in caso di cessazione dell’attività, solo una domanda di rimborso conforme al modello ministeriale corrisponderebbe allo schema tipico delineato dall’art. 30 del decreto IVA, con la conseguenza che la domanda difforme resterebbe assoggettata alla decadenza biennale prevista, in via residuale, dal citato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21 (Cass. nn. 18920 e n. 18915 del 2011; n. 7669 del 2012); quanto al termine prescrizionale, questa Corte ha reiteratamente affermato che il credito Iva esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi è soggetto all’ordinaria prescrizione decennale, mentre non è applicabile il termine 4 Corte di Cassazione – copia non ufficiale biennale di decadenza previsto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 21, comma 2, in quanto l’istanza di rimborso non integra il fatto costitutivo del diritto, ma solo il presupposto di esigibilità del credito per dare inizio al procedimento di esecuzione del rimborso stesso (ex multis, Cass. n. 4559 del 2017, nn. 9941 e 4857 del 2015, n. 20678 del 2014, nn. 7684, 14070, 15229 e 23580 del 2012, n. 13920 del 2011, n. 9794 del 2010); conclusivamente, quindi, il ricorso va accolto, la sentenza impugnata va cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, essendo incontroversa la spettanza del credito e la tempestività dell’istanza di rimborso, va accolto l’originario ricorso della contribuente; le spese del presente giudizio di legittimità vanno poste a carico della controricorrente, (Agenzia delle Entrate) rimasta soccombente, nella misura liquidata in dispositivo, mentre quelle dei gradi di merito vanno compensate tra le parti in ragione dell’evoluzione giurisprudenziale in i profili sostanziali

L’AGENZIA DELLE ENTRATE NON AVEVA TENUTO CONTO DELL’AVVIAMENTO: RICORSO DEL CONTRIBUENTE ACCOLTO.

Titolare di un’impresa di noleggio di ciclomotori e biciclette aveva acquistato un esercizio di rivendita di generi di monopolio, ricevitoria e cartoleria (per le due attività aveva un’unica partita Iva e una sola contabilità). Avviso di accertamento ridetermina il reddito relativo ad un anno d’imposta, con maggiore Irpef, addizionali regionali e comunali, oltre a interessi e sanzioni. Studio legale Tributario Pirro Milano studiopirro@libero.it 3475404943 Il contribuente in causa Ordinanza della Cassazione Sezione 5 tributaria n. 21124/2020. Una persona fisica, già titolare di un’impresa di noleggio di ciclomotori e biciclette, aveva acquistato un esercizio di rivendita di generi di monopolio, ricevitoria e cartoleria, al prezzo di euro 129.114,22, di cui euro 123.949,66 a titolo di avviamento. Aveva alienato l’esercizio acquistato al prezzo di euro 100.000,00 di cui 95.000,00 a titolo di avviamento, restando invece titolare del primo ramo d’azienda.  La sentenza n. 240/24/2012, depositata il 14.12.2012 dalla Commissione tributaria Regionale della Sicilia conferma la sentenza di primo grado e rigetta l’impugnazione dell’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate aveva rideterminato il reddito relativo all’anno d’imposta, con maggiore Irpef, addizionali regionali e comunali, oltre a interessi e sanzioni. Il contenzioso tributario Con l’avviso di accertamento notificato l’Agenzia delle entrate aveva contestato alla contribuente l’inesattezza dei dati esposti in dichiarazione, in particolare un reddito d’impresa pari a soli euro 2.954,00, a fronte del prezzo di cessione del ramo d’azienda, che veniva integralmente recuperato ad imponibile. La contribuente, al contrario sosteneva che da quella cessione era scaturita una minusvalenza. Prima che il ricorso arrivasse in Cassazione La contribuente aveva adito la Commissione tributaria provinciale di Agrigento, che con sentenza n. 798/04/2009 aveva rigettato però il ricorso. La statuizione era stata confermata dalla Commissione tributaria regionale della Sicilia, con la decisione oggetto della presente impugnazione. I giudici regionali hanno ritenuto che il valore d’avviamento realizzato con la vendita del ramo d’azienda aveva costituito componente positiva del reddito d’impresa, sicché legittimamente l’Amministrazione finanziaria aveva provveduto al suo recupero ad imponibile. La contribuente censura la decisione del giudice d’appello con due motivi: con il primo per violazione e falsa applicazione della norma del testo unico delle imposte sui redditi riguardante le plusvalenze patrimoniali, degli artt. 3, 23, 53, 70 e 97 Costituzione della Repubblica Italiana, della norma dello Statuto dei diritti del Contribuente sulla conoscenza degli atti e semplificazione, per aver erroneamente operato la tassazione dell’avviamento commerciale, senza tener conto del rapporto tra il corrispettivo con il costo non ammortizzato; con il secondo per omesso esame circa fatti decisivi ai fini del giudizio, che hanno formato oggetto di discussione tra le parti. I gradi di merito erano sfavorevoli alla società contribuente che ricorre per cassazione, affidandosi a due motivi, cui replica l’Agenzia delle Entrate. Il motivo di impugnazione accolto Con il primo motivo la contribuente si duole dell’erronea applicazione dell’art. 86 del d.P.R. n. 917 del 1986. Il motivo è fondato nei limiti e nei termini appresso chiariti. In motivazione il giudice regionale prima inquadra le ragioni della contribuente, secondo la quale anche l’avviamento dell’azienda acquistata a titolo oneroso, avviamento iscritto in bilancio, aveva concorso alla determinazione del valore complessivo della cessione d’azienda, valore dunque da identificarsi nella parte ancora non ammortizzata, che nel concreto portava ad evidenziare una minusvalenza. Sennonché «esattamente hanno deliberato e motivato i giudici di prime cure in ossequio al contenuto dell’art. 86, comma 2, del TUIR n. 917/1986, in quanto il valore dell’avviamento realizzato con la vendita di azienda e quindi la quantificazione monetaria concorre come elemento positivo alla formazione del reddito dell’azienda, conseguentemente è legittimo quanto accertato come reddito d’impresa da parte dell’Ufficio. Tale condizione è stata confermata dalla stessa contribuente che in sede di contraddittorio amministrativo dichiarava di avere impegnato gli introiti derivanti dalla vendita dell’azienda, per la vendita di monopoli, ricevitoria e cartoleria, nell’acquisto dell’immobile nel rogito del Notaio; quindi non si può certo considerare tale introito che come elemento positivo costituente reddito dell’impresa contribuente sul quale legittimamente l’Ufficio ha emesso l’atto impugnato.»(…) Questo Collegio ritiene che l’assunto del giudice regionale sia erroneo per un’errata lettura della norma. Intanto va premesso che la norma colloca il valore di avviamento in seno alle plusvalenze derivanti dalla cessione d’azienda, fattispecie a sua volta collocata nel comma 2 dell’art. 86 cit., che nel primo periodo disciplina il criterio di determinazione della plusvalenza. Chiarita la collocazione della fattispecie, è pacifico che l’avviamento non rientra nel complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, ma viene generalmente identificato nella qualità immateriale dell’impresa di produrre valore, costituendo pertanto più che un bene singolarmente valutabile, un valore economico ulteriore rispetto al valore complessivo dei singoli beni organizzati per l’esercizio d’impresa. Esso dunque è l’indice della capacità di produrre valori, oscillanti rispetto all’ordinaria capacità produttiva dei beni dell’azienda. Si tratta in ogni caso di un bene immateriale, appostato nell’attivo dello stato patrimoniale (2424 c.c.). Ad esso fa peraltro rifermento l’art. 103 del TUIR, laddove prevede la deducibilità delle quote di ammortamento del valore di avviamento che sia iscritto nell’attivo di bilancio. Tale riferimento si giustifica, nella condivisibile ricostruzione di certa dottrina, preminentemente con l’esigenza di determinare il costo non ammortizzato, che va assunto ai fini della quantificazione dei componenti reddituali che emergono in sede di realizzo. Ciò ha fatto anche osservare che, nel quadro delle plusvalenze afferenti la cessione unitaria dell’azienda a titolo oneroso, l’inciso “compreso l’avviamento” vuol significare che alla quantificazione della plusvalenza concorre anche l’avviamento già iscritto in bilancio. D’altronde è la stessa Circolare 98/E/2000 dell’Agenzia delle entrate che riconosce nell’avviamento una componente del costo dell’azienda ceduta. Ebbene, rispetto ad un avviamento cd. derivativo (cioè già oggetto di una sua autonoma identificazione in occasione del precedente acquisto dell’azienda da parte dell’attuale cedente), e tenendo conto della sua appostazione nell’attivo dello stato patrimoniale, così come della sua ammortizzabilità, appare incomprensibile perché, ai fini della sua valutazione in sede di cessione d’azienda (del ramo d’azienda), la sentenza abbia ritenuto corretta la valutazione dell’Amministrazione finanziaria. Questa, riconducendo ad imponibile l’intero valore dell’avviamento del ramo d’azienda ceduto, non ha tenuto conto di quanto previsto dall’art. 86, comma

LA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA SI PRESENTAVA DEFICITARIA. IL RICORSO MERITA ACCOGLIMENTO.

S.r.l. che conduce attività di bar discoteca avverso avviso di accertamento emesso da Agenzia delle Entrate sulla base di studi di settore. Studio legale Tributario Pirro Milano studiopirro@libero.it 3475404943 Il contribuente in causa Ordinanza della Cassazione Sezione tributaria numero 20209 del 2020. S. C. S.r.l., contro Agenzia delle Entrate, elettivamente domiciliata in Roma presso Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende avverso la sentenza n. 30/2012 della Commissione Tributaria Regionale di Genova depositata il 31/05/2012; Il contenzioso tributario La società contribuente conduceva attività di bar discoteca ed a seguito di verifica avvenuta nel 2007 veniva trovata non allineata con gli studi di settore per l’anno di imposta 2005, rappresentando una reiterata gestione in perdita e con omissione della dichiarazione Iva, ritenendo la società di rientrare nell’esonero di cui all’art. 74, comma sesto, d.P.R. n. 633/1972, in quanto corrispondeva l’imposta sui trattenimenti (“Per gli intrattenimenti, i giochi e le altre attivita’ di cui alla tariffa allegata al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 640  l’imposta si applica sulla stessa base imponibile dell’imposta sugli intrattenimenti ed è riscossa con le stesse modalità stabilite per quest’ultima…”). Esperito il contraddittorio endoprocedimentale e ritenute non fondate le giustificazioni offerte dal contribuente anche per specificare la propria posizione in rapporto allo schema statistico dello studio di settore, veniva ricostruito il reddito e riprese a tassazioni le maggiori somme così accertate. Prima che il ricorso arrivasse in Cassazione I gradi di merito erano sfavorevoli alla società contribuente che ricorre per cassazione, affidandosi a tre articolati motivi, cui replica l’agenzia delle Entrate con tempestivo controricorso. Il motivo di impugnazione accolto In ossequio al principio della priorità nella trattazione del motivo di più pronta soluzione capace di dirimere la controversia (cfr. da ultimo Cass. V, n. 363/2019), viene esaminato prioritariamente il terzo motivo, ove si lamenta violazione per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti, nella sostanza criticandosi che la gravata sentenza si riferisca ad “alcuni giorni di pioggia” in piena stagione e riduttivi dei giorni lavorati, mentre si trattava di “ben otto” rispetto ai 34 lavorati nella stagione, senza tener conto che la media dell’incasso avrebbe dovuto essere ridotta per i meno redditizi mesi di luglio ed agosto, con sostanziale dimezzamento dell’introito, in tal modo rendendo viziata la sentenza che non ne ha debitamente tenuto conto, limitandosi ed enunciare la circostanza, peraltro in modo riduttivo. La motivazione della sentenza sul punto si riduce a tre righe, presentandosi funzionalmente deficitaria (cfr. Cass. V, n. 32980/2018) se non strutturalmente compromessa (cfr. Cass. S.U., n. 22232/2016). Ed infatti, deve ricordarsi che è ormai principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte l’affermazione secondo la quale (Cass. VI- 5, n. 9105/2017) ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento. In tali casi la sentenza resta sprovvista in concreto del c.d. “minimo costituzionale” di cui alla nota pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U, n. 8053/2014, seguita da Cass. VI – 5, n. 5209/2018). Il motivo è fondato ed assorbente. In conclusione, il ricorso è fondato e merita accoglimento. Studio legale Tributario Pirro Milano studiopirro@libero.it 3475404943 PQM La Corte accoglie il ricorso per le ragioni attinte dal terzo motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla CTR cui demanda anche la regolazione delle spese del giudizio di legittimità. Così deciso il 25 febbraio 2020.  

LA PROVA DELL’INESISTENZA OGGETTIVA DELLE FATTURE NON ERA STATA RAGGIUNTA. LA CORTE CASSA LA SENTENZA CHE DAVA RAGIONE ALL’AGENZIA ENTRATE

 S.r.l. impiegata in Gestione di servizi amministrativi e contabili con tecnologie avanzate avverso avviso di accertamento per II.DD., IRAP e IVA emesso dall’Agenzia delle Entrate in dipendenza di operazioni ritenute oggettivamente inesistenti. Studio legale Tributario Pirro Milano studiopirro@libero.it 3475404943 Il ricorrente in causa Sentenza della  Corte di Cassazione sezione tributaria numero 20854 del 2020. L’ amministratore unico della società a responsabilità limitata impiegata in Gestione di servizi amministrativi e contabili con tecnologie avanzate. Avverso sentenza n. 172/29/12 depositata in data 24 settembre 2012 la Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. staccata di Taranto. Per quale motivo ha scelto la via del contenzioso tributario L’Agenzia delle Entrate ha emesso avviso di accertamento sia riguardo alle Imposte sui redditi., sia all’ Imposta regionale sulle attività produttive che all’ Imposta sul valore aggiunto, in dipendenza di operazioni ritenute oggettivamente inesistenti, da lui giudicato illegittimo. Prima che il ricorso arrivasse in Cassazione Con sentenza n. 172/29/12 depositata in data 24 settembre 2012 la Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. staccata di Taranto rigettava l’appello proposto da T. F. Srl, avverso la sentenza n. 637/6/10 della Commissione tributaria provinciale di Taranto, che a sua volta aveva rigettato il ricorso della contribuente relativo ad un avviso di accertamento per II.DD., IRAP e IVA 2004 emesso in dipendenza di operazioni ritenute oggettivamente inesistenti. La CTR condivideva la decisione di primo grado ritenendo adeguatamente motivato l’atto impositivo e, nel merito, fondato senza che la contribuente avesse fornito la prova dell’esistenza delle operazioni contestate, ai fini dell’esercitato diritto alla detrazione IVA. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione la contribuente deducendo quattro motivi, articolati a loro volta in sottomotivi. L’Agenzia delle Entrate ha depositato mera comparsa di costituzione ai fini dell’eventuale partecipazione all’udienza. I motivi di impugnazione accolti Con il primo motivo viene dedotto il vizio motivazionale e la violazione di legge ad un tempo, ma sempre al fine di ottenere la nullità della sentenza – la contribuente deduce la nullità della pronuncia gravata, per plurime ragioni, riassumibili in denuncia da un lato di motivazione apparente in violazione dell’art.132 cod. proc. civ. essendosi la stessa articolata in laconiche affermazioni non idonee a rendere comprensibili le ragioni del rigetto delle doglianze dedotte in appello, tra cui la violazione del contraddittorio endoprocedimentale per mancata redazione di pvc a conclusione dell’invio del questionario e delle ulteriori indagini presso terzi, la ritenuta inerenza dei costi per materiale di cancelleria e di ristrutturazione dell’immobile di proprietà e l’immotivazione delle sanzioni irrogate. Dall’altro canto, la nullità della sentenza viene dedotta per l’omessa pronuncia circa la ripresa riguardante la deduzione di costi relativi agli oneri di gestione e circa la richiesta subordinata di riduzione delle sanzioni stesse ex art.12 e 17 d.lgs. n.472 del 1997, in virtù dell’esistenza di più avvisi di accertamento emessi nei confronti della contribuente per i diversi anni di imposta (pagg.22 e 23 appello). I motivi sono fondati, nei termini che seguono. Quanto alle denunciate omesse pronunce, la sentenza del giudice d’appello in effetti non permette di comprendere esattamente neppure quale sia la materia del contendere. Non è chiara quale sia secondo la CTR la natura delle operazioni inesistenti contestate, se oggettivamente o soggettivamente inesistenti, e la sentenza prende posizione sulla ripresa per indebita deduzione di costi mentre il ricorso con compiuta autosufficienza dimostra che questa è stata oggetto di appello, in particolare in relazione agli oneri di gestione (pag.5 appello). Ancora, quanto alle sanzioni applicate, è la stessa sentenza a dare atto nell’esposizione del fatto processuale dell’esistenza di una specifica domanda da parte dell’appellante di «mancata applicazione delle riduzioni ex d.lgs. n.472/1997» confermata dai richiami alle pagg.22 e 23 dell’appello contenuti nel ricorso, ma il giudice di appello non si è pronunciato a riguardo. Orbene, nel censurare tali omissioni, il quarto mezzo di impugnazione – oltre parte del primo motivo -, chiaramente censura delle omesse pronunce, vizio che integra una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto pronunciato ex art. 112 cod. proc. civ., e ricorre Corte di Cassazione – copia non ufficiale quando vi sia omissione di qualsiasi decisione su di un capo di domanda, intendendosi per tale ogni richiesta delle parti diretta ad ottenere l’attuazione in concreto di una volontà di legge che garantisca un bene della vita alla parte (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 7653 del 16/05/2012). In questo caso, si tratta della domanda di annullamento della ripresa circa la ritenuta indebita deduzione di costi di gestione e della domanda di riduzione delle sanzioni. Il quarto motivo ben può essere riqualificato secondo il paradigma del n.4, comma primo, art.360 cod. proc. civ., in applicazione del principio di diritto secondo il quale «L’erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non osta alla riqualificazione della sua sussunzione in altre fattispecie di cui all’art. 360, primo comma, cod. proc. civ., né determina l’inammissibilità del ricorso, se dall’articolazione del motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato» (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 4036 del 20/02/2014,) e, nei termini sopra indicati, trova accoglimento. Circa la denuncia di motivazione apparente poi, oggetto di gran parte del primo motivo, la Corte reitera l’insegnamento secondo cui «La motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo“, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture» (Cass. Sez. Un. 3 novembre 2016 n. 22232). Orbene, la stringata motivazione della CTR nella parte in cui prende posizione su parte dei motivi di appello, non permette di comprendere le ragioni per cui è stata ritenuta sufficiente la motivazione dell’atto impositivo essendo tautologica l’affermazione secondo la quale sarebbero «state regolarmente esposte le ragioni che escludono Corte di Cassazione – copia non ufficiale l’accoglimento dei motivi di censura». E’ poi generica e non intellegibile nel suo fondamento l’affermazione circa l’applicazione del canone dell’onere della prova alla fattispecie: «nessuna adeguata prova ha, ex averso, fornito

AGENZIA DELLE ENTRATE CONTESTAVA OMESSA FATTURAZIONE MA I MOTIVI DEL RICORRENTE SONO FONDATI E ACCOLTI

S.r.l. immobiliare impegnata nella locazione di beni propri o di leasing impugna avviso di accertamento per recupero a tassazione di Ires, Irap, Iva. Secondo l’Agenzia delle Entrate sussistevano l’omessa fatturazione, l’indeducibilità del costo non inerente, l’indeducibilità del costo non certo e preciso ed, infine, la violazione della norma sulla variazione dell’imponibile o dell’imposta. Studio legale Tributario Pirro Milano studiopirro@libero.it 3475404943  Il ricorrente in causa Sentenza della Cassazione tributaria Sez. 5 numero 19340/2020. Il socio della società a responsabilità limitata estinta e il legale rappresentante (anche esso socio) della medesima Il contenzioso tributario Per la necessità di impugnare l’avviso di accertamento IRES, IRAP e IVA con cui Agenzia delle Entrate aveva contestato: l’omessa fatturazione  in relazione a una vendita immobiliare, in cui avveniva riduzione del prezzo di vendita in epoca successiva alla compravendita rispetto a quanto inizialmente fatturato; la insussistenza di ragioni economiche dello scioglimento del vincolo contrattuale e della conseguente restituzione ai promissari acquirenti di una caparra confirmatoria, già versata in relazione a una precedente scrittura privata di «risoluzione» di un precedente contratto preliminare con altri promissari acquirenti, avente ad oggetto il medesimo compendio immobiliare, con conseguente indeducibilità del costo della restituzione della caparra ai fini IRPEG e IRAP quale costo non inerente; l’indeducibilità di costi costituiti dal saldo del conto perdite su crediti, non risultanti da elementi certi e precisi a termini dell’art. 101, comma 5, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), con recupero ai fini IRES e IRAP; il recupero a tassazione di note di credito indebitamente emesse in variazione della precedente IVA già fatturata, in quanto note emesse in spregio alla norma sulla variazione dell’imponibile o dell’imposta oltre l’anno dall’operazione imponibile; l’irrogazione delle conseguenti sanzioni. Prima che il ricorso arrivasse in Cassazione La CTP di Genova ha parzialmente accolto il ricorso in primo grado, in relazione alla inerenza del costo della restituzione della caparra e in relazione alla determinazione delle sanzioni. La CTR della Liguria, con sentenza del 10 giugno 2011, dando atto della proposizione dell’appello incidentale del contribuente in merito ai profili non accolti, si è pronunciata unicamente sull’appello principale dell’Ufficio, accogliendolo e affermando che le ulteriori statuizioni relative agli altri rilievi non impugnati dalla contribuente devono considerarsi definite; che la «risoluzione del contratto» risulta «pretestuosa», sulla base delle considerazioni contenute in un addendum sottoscritto dalle parti contrattuali, in virtù del quale il promissario acquirente si era assunto il rischio di accettare l’esecuzione di nuove opere, rischio che non può ricadere sul promittente venditore, ancorché questo riguardi il mancato ottenimento di concessioni edilizie entro il termine stabilito dalle parti; che confortano tale conclusione i rapporti personali tra le persone fisiche («sostanziale identità di persone e coincidenza di interessi»), nonché l’assenza di data certa della contestazione dell’inadempimento con richiesta di risoluzione del contratto. Hanno proposto ricorso i contribuenti, quali successori ex lege. I motivi di impugnazione accolti Con il primo motivo i contribuenti deducono nullità della sentenza per omessa pronuncia sui motivi di appello incidentale, in relazione ai quali parte contribuente era rimasta soccombente in primo grado, attinenti alla mancata fatturazione di corrispettivi nella compravendita con la SRL, alla legittimità della emissione di note di variazione ex art. 26 d.P.R. n. 633/1972 e alla deducibilità del saldo del conto perdite su crediti. Con il secondo motivo si deduce violazione avendo la sentenza impugnata dato atto della proposizione di appello incidentale da parte del contribuente e avendo al contempo dichiarato «definite» le statuizioni impugnate da parte contribuente. Con il decimo motivo, articolato, in via gradata rispetto agli altri motivi, si deduce violazione di legge in relazione all’art. 37-bis d.P.R. 16 ottobre 1973, n. 600 e all’art. 109 d.P.R. n. 917/1986, nella parte in cui si è proceduto a recuperare il costo della restituzione della caparra per mancata inerenza, ritenendo che la risoluzione di un contratto preliminare non rientri tra le operazioni elusive; evidenziano, inoltre, come non sussistano gli estremi della violazione del divieto di abuso del diritto, sia per assenza di un indebito vantaggio fiscale, sia perché non sono state evidenziate ulteriori e diverse ragioni a fondamento della restituzione della caparra, sia infine in quanto sussistevano ragioni economiche allo scioglimento del vincolo contrattuale. I primi due motivi, sono fondati e vanno accolti. La sentenza impugnata ha dato atto che, a seguito di accoglimento parziale della domanda per effetto della sentenza di primo grado, parte contribuente ha impugnato con appello incidentale la sentenza in relazione ai rilievi non accolti per poi dare contraddittoriamente atto che le statuizioni non impugnate dall’Ufficio devono considerarsi definite. La CTR ha, pertanto, omesso ogni statuizione rispetto all’appello incidentale, in quanto non poteva esservi definitività per effetto della proposizione dell’appello incidentale. Il decimo motivo, attinente al giudizio di non inerenza del costo della caparra – oggetto di restituzione ai promissari acquirenti – in relazione all’attività imprenditoriale svolta dalla società promittente venditrice, alla luce della circostanza secondo cui sono inopponibili all’amministrazione finanziaria «gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte rimborsi, altrimenti indebiti. L’atto inopponibile all’amministrazione finanziaria sarebbe costituito dalla scrittura di risoluzione consensuale, assimilabile a uno scioglimento del contratto per mutuo dissenso (art. 1372 cod. civ.), alla quale si è accompagnata la restituzione della caparra confirmatoria illo tempore versata al promittente venditore, costituente atto privo di alcuna logica imprenditoriale e finalizzata ad ottenere un vantaggio fiscale consistente nella creazione di un costo fiscalmente deducibile. Il motivo è fondato. E’ principio consolidato quello secondo cui in tema di imposte sui redditi, la disciplina antielusiva dettata dall’art. 37-bis d.P.R. n. 600/ 1973 ratione temporis applicabile, la quale costituisce espressione del principio generale del divieto di abuso del diritto, prevede una tipizzazione delle singole fattispecie negoziali elusive, sicché può configurarsi un abuso del diritto solo qualora ricorra una delle operazioni ivi indicate dal terzo comma dell’art. 37-bis d.P.R. n. 600/1973, le cui disposizioni limitano l’ambito applicativo dei due precedenti commi, relativi al principio di inopponibilità all’amministrazione finanziaria degli atti elusivi (Cass., Sez. V,

LA FALSA INDICAZIONE DI UNO DEI SOGGETTI IN FATTURA NON RILEVAVA: ACCOLTO IL RICORSO SU OPERAZIONI SOGGETTIVAMENTE INESISTENTI

La società opera nel settore del commercio di autoveicoli ed era stata attinta da avviso di accertamento per operazioni soggettivamente inesistenti.  La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia il giudizio alla CTR.  Dai motivi accolti, i costi erano deducibili e la motivazione insufficiente Studio legale Tributario Pirro Milano studiopirro@libero.it 3475404943 Le Parti del processo Sentenza della Cassazione tributaria Sez. 5 numero 15139/2020. E. SRL, di due fratelli, ricorrenti contro AGENZIA DELLE ENTRATE avverso la sentenza della COMM.TRIB.REG. di MILANO avverso la sentenza o11/2013 della COMM.TRIB.REG. di MILANO, depositata il 19/02/2013. Il contenzioso tributario La società contribuente che opera nel settore del commercio di autoveicoli era stata attinta da avviso di accertamento per l’anno di imposta 2005, adottato a seguito di pvc redatto dalla Guardia di Finanza dove si contestava una serie di operazioni ritenute soggettivamente inesistenti emesse da soggetti ritenuti dai militari dei soggetti fittiziamente interposti. Attesa la ristretta base azionaria della società contribuente, l’atto impositivo si rifletteva in avviso di accertamento per ciascuno dei due soci-fratelli sulla base della presunzione della distribuzione degli utili occulti Prima che il ricorso arrivasse in Cassazione In appello i giudici richiamavano l’assenza di ogni struttura aziendale in capo alle società asserite fittiziamente interposte. Valorizzava altresì, la CTR, la circostanza della ristretta base azionaria, costituita da due soci del medesimo nucleo familiare, evidenza di guadagni extracontabili tali da escludere ogni buona fede ai fini della riduzione delle sanzioni. Proponevano, pertanto, ricorso congiunto la società e i due soci, cui replica l’Avvocatura generale dello Stato. I motivi di impugnazione accolti Con il primo motivo si prospetta la mancata considerazione di fatto rilevante, relativo alla invocata deducibilità dei costi anche da fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, come ritenuto anche da questa Corte. Il motivo si duole che da quel fatto non sia stata dedotta la deducibilità dei costi, auspicata da parte contribuente. Con il secondo motivo si contesta il non aver considerato che il ricevimento di fatture per prestazioni soggettivamente inesistenti non produce alcun maggior reddito, tantomeno da ritenersi distribuito ai soci con ripresa a tassazione nei loro confronti. Il punto è conseguenziale alla doglianza che precede, giacché la deduzione di costi per operazioni soggettivamente inesistenti comporta utili occulti (proporzionati ai costi inesistenti dedotti, come riduzione della base imponibile) che per presunzione correlata alla norma disciplinante la determinazione dei redditi in base alle scritture contabili contenute nel testo unico delle imposte sui redditi sono da ritenersi distribuiti ai soci della ristretta compagine azionaria, salva la prova contraria a carico dei contribuenti (Cfr. Cass. n.18032/2013; n.24534/2017). Con il terzo motivo, si prospetta la violazione delle disposizioni generali applicabili al processo tributario e dell’obbligo di motivazione, lamentando che non sia stata data motivazione alla correlazione fra indetraibilità dell’Iva e indeducibilità dei costi. I tre motivi possono essere trattati congiuntamente stante la stretta connessione, avendo riguardo alla deducibilità dei costi (comunque sostenuti) su prestazioni soggettivamente inesistenti e sul correlato maggior utile conseguito in ragione di Iva (indebitamente) dedotta su tali operazioni, utile che deve ritenersi distribuito ai soci, in ragione dello stretto legame fra soci e società di capitali a ristretta base azionaria, particolarmente rinforzato ove, come nel caso in esame, al legame societario si aggiunga un legame familiare, di stretta parentela. In quest’ordine, stante l’obbligo del giudice nazionale di garantire la piena ed effettiva attuazione del diritto dell’UE, si è ripetutamente affermato che «l’immediatezza dei rapporti fra l’emittente ed il destinatario della fattura è forte indice oggettivo capace di escludere l’ignoranza incolpevole del contribuente in merito all’avvenuto versamento dell’Iva a soggetto non legittimato alla rivalsa», con la conseguenza che toccherà al soggetto acquirente, al fine di non perdere il diritto alla detrazione, «provare […] di non essere stato a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione era, non il fatturante, ma altri» (Cfr. Cass. V, n. 2398/2018.; conf. 8846/2019, 3591/21019, 2565/2019, 17173/2018, 17161/2018, 10001/2018, 3473/2018, 30559/2017, 19419/2015, 25779/2014 e 15331/2014). Diversamente si è precisato che, se al destinatario non compete, di norma, conoscere la struttura e le condizioni di operatività del proprio venditore, sorge, tuttavia, un obbligo di verifica, nei limiti dell’esigibile, in presenza di indici personali od operativi anomali dell’operazione commerciale ovvero delle scelte dallo stesso effettuate ovvero tali da evidenziare irregolarità e ingenerare dubbi di una potenziale evasione, la cui rilevanza è tanto più significativa atteso il carattere strutturale e professionale della presenza dell’imprenditore nel settore di mercato in cui opera e l’aspettativa, fisiologica ed ordinaria, che i rapporti commerciali con gli altri operatori siano proficui e suscettibili di reiterazione nel tempo (Cass. n. 24490/2015). Priva di rilievo è sia la prova sulla regolarità formale delle scritture e sull’effettività dei pagamenti, sia quella sull’inesistenza di un dimostrato vantaggio perché i prezzi di vendita erano conformi o superiori alla media di mercato, trattandosi le prime di circostanze già insite nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente e la seconda perché riferita ad un dato di fatto esterno alla fattispecie tipica ed inidoneo di per sé a dimostrare l’estraneità alla frode (29027/2017; 428/2015; 20059/2014; CGUE 22.10.2015, C- 277/14). La gravata sentenza motiva la ripresa a tassazione autonomamente, ritenendo sussistenti le presunzioni di conoscenza, connesse alla ristretta base azionaria, rilevando l’evidenza di utili non riportati in scritture ed indici di guadagni extracontabili, con apprezzamento dell’apporto probatorio che esula dal sindacato di legittimità di questa Corte, segnatamente ritenendo dimostrata la finzione delle operazioni note. Non di meno, la deducibilità dei costi è del tutto trascurata dalla CTR, non ostante lo specifico rilievo nel giudizio di merito (vedasi ricorso a pag. 49), sicché il motivo è fondato e merita accoglimento, riguardo alla deducibilità dei costi. Ed infatti, occorre ricordare che in tema di imposte sui redditi, sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una “frode carosello“), per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità oppure

IL VALORE DI VENDITA NON DOVEVA ESSERE RETTIFICATO: LA CORTE DA RAGIONE AL CONTRIBUENTE (SOCIETA’)

La società che opera nella compravendita di beni immobili effettuata su beni propri era stata attinta da avviso di rettifica del valore di vendita. La corte in relazione ai motivi accolti cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla CTR: dai motivi accolti, il giudice non aveva valutato tutte le prove sottoposte dal contribuente Studio legale Tributario Pirro Milano studiopirro@libero.it 3475404943    Il ricorrente in causa Sentenza della Corte di Cassazione Sezione 5 n. 20859/2020. Ricorso proposto dalla V. società a responsabilità limitata esercente attività di Compravendita di beni immobili effettuata su beni propri, ricorrente contro Agenzia delle Entrate avverso la sentenza Commissione tributaria regionale del Lazio n. 121/04/2012, pronunciata il 14 febbraio 2012 e depositata il 7 marzo 2012;   Il contenzioso tributario Per opporsi al recupero a tassazione sulla base di una ricostruzione fattuale errata della Agenzia delle Entrate riguardo ai risvolti legali di una operazione di compravendita immobiliare di cui la società i faceva promotrice. Cosa è successo prima che il ricorso arrivasse in Cassazione La CTR aveva accolto il gravame ritenendo raggiunta la prova della fondatezza del recupero a tassazione della differenza di valore tra quello dichiarato di euro 3.000.000,00 e quello rideterminato di 540.000,00. La ricostruzione fattuale è la seguente. La V. s.r.l. conferì a R.D.V. I.t.d (id est limited company, società a responsabilità limitata costituita secondo le leggi vigenti in Inghilterra) l’incarico di intermediazione con riferimento alla vendita di una porzione, del valore di 18.000.000,00 di euro, di un immobile sito in Milano (il cui prezzo totale era stato indicato dalla venditrice in euro 65.000.000,00). Per l’incarico fu pattuita una provvigione pari ad euro 6.000.000,00 da corrispondere metà alla sottoscrizione del contratto preliminare di compravendita e metà alla stipula del rogito del contratto di compravendita. Il preliminare, in forza di transazione fu risolto, con conseguente restituzione della caparra versata (pari ad 8.000.000,00 di euro); nonostante la mancata conclusione del contratto definitivo, come da contratto di intermediazione, la contribuente corrispose comunque alla società intermediaria 3.000.000,00 di euro. La CTR, convenendo con l’Agenzia delle Entrate, ritenne che il detto importo, eccessivo rispetto anche alla percentuale del 3% (come risultante da usi e consuetudini di cui alla Camera di Commercio), fosse antieconomico, così validando la rideterminazione dello stesso effettuata dall’Amministrazione in euro 540.000,00 euro (pari al 3%) con conseguente recupero a tassazione della differenza. Sicché, la CTR ritenne fondato l’accertamento, ex art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, in ragione della ritenuta antieconomicità dell’operazione in quanto assolutamente contraria ai canoni dell’economia, non giustificata dalla contribuente. Contro la sentenza d’appello la contribuente ricorre in giudizio mentre l’Agenzia delle Entrate si costituisce, senza controricorrere. I motivi di impugnazione accolti Rilevano i giudici l’omessa motivazione circa la ritenuta antieconomicità dell’operazione, tanto in relazione alla percentuale della provvigione, da determinarsi in ragione superiore al 3% (motivo n. 6), quanto in merito alla mancata considerazione complessiva dell’oggetto dell’intermediazione, ricomprendente anche un’opzione per l’acquisto dell’intero immobile per euro 65.000.000,00 di euro (motivo n. 7). I motivi meritano accoglimento (con assorbimento degli altri), sussistendo il dedotto vizio motivazionale in ordine alla mancata considerazione, insieme agli altri elementi invece valutati ed ai fini del conseguente giudizio in termini di antieconomicità, della complessiva operazione economica, tale da ricomprendere anche un’opzione di vendita dell’intero immobile (ad un prezzo di euro 65.000.000,00). La provvigione infatti, sostiene il contribuente Srl, è stata determinata dal Giudice in violazione (o falsa applicazione) tanto del principio di «insindacabilità delle scelte imprenditoriali» quanto sovvertendo la gerarchia delle fonti. Si contesta pertanto, proficuamente, l’omessa motivazione circa la ritenuta antieconomicità dell’operazione, tanto in relazione alla percentuale della provvigione, da determinarsi in ragione superiore al 3%, quanto in merito alla mancata considerazione complessiva dell’oggetto dell’intermediazione, ricomprendente anche un’opzione per l’acquisto dell’intero immobile per euro 65.000.000,00 di euro. Sussistendo il dedotto vizio motivazionale in ordine alla mancata considerazione della complessiva operazione economica, tale da ricomprendere anche un’opzione di vendita dell’intero immobile (ad un prezzo di euro 65.000.000,00) sono accolti i motivi, e la sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, che regolerà anche le spese del presente giudizio di legittimità. Studio legale Tributario Pirro Milano studiopirro@libero.it 3475404943 P.Q.M. La corte cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, che provvederà anche, alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, il 28 gennaio 2020.

IL RIMBORSO IVA NON DOVEVA ESSERE NEGATO ALL’AGRICOLTORE

La società contribuente opera nel settore agricolo ed è stata attinta da avviso di accertamento per diniego rimborso IVA. La Corte accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata e rinvia il giudizio alla CTR Dal motivo accolto, il rimborso IVA non poteva essere negato alla società agricola. Studio legale Tributario Pirro Milano studiopirro@libero.it +393475404943 IL CONTENZIOSO TRIBUTARIO Sentenza della Corte di Cassazione Sezione V tributaria n. 20045/2020 Ricorso proposto dalla società in accomandita semplice A.S.B. di A.F. & c., in persona del legale rappresentante A.F., ricorrente contro Agenzia delle Entrate rappresentata e difesa dall’avvocatura generale dello Stato, controricorrente avverso la sentenza della Commissione Tributaria Centrale, sezione de L’Aquila. Prima che il ricorso arrivasse in Cassazione La A.S.B., inizialmente società a responsabilità limitata, poi trasformata in A.S.B. società in accomandita semplice di A.F. & company, impugna il provvedimento di diniego emesso dall’Agenzia delle Entrate, sull’istanza di rimborso dei crediti IVA maturati nel corso dell’anno 1989, per effetto della rinuncia allo speciale regime di esonero dal versamento dell’imposta previsto per i produttori agricoli. Accolta l’impugnazione in primo grado, l’Agenzia delle Entrate propone appello innanzi alla Commissione Tributaria di Secondo Grado di Teramo, che conferma la sentenza impugnata; proposto dall’Agenzia delle Entrate ricorso innanzi alla Commissione Tributaria Centrale, sezione de L’Aquila, l’appello viene accolto, restando respinta la pretesa della contribuente, poiché non aveva manifestato espressamente la rinuncia al precedente regime di esonero. Avverso la detta sentenza, la società in accomandita semplice A.S.B. di A.F. & company ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, cui resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate. Con il primo e unico motivo accolto  Lamenta la ricorrente la violazione del Regime speciale per gli agricoltori e attività agricole connesse e dell’opzione e la revoca di regimi di determinazione dell’imposta o di regimi contabili.  Poiché la Commissione Tributaria Centrale ha erroneamente ritenuto che la scelta per il regime ordinario anziché per quello speciale di esonero dall’IVA, fosse condizionato ad una espressa comunicazione da parte del contribuente. Il motivo è fondato. Secondo l’orientamento consolidato della Corte di Cassazione, in tema di IVA, l’omessa dichiarazione di opzione per l’applicazione dell’imposta nel modo ordinario può essere surrogata da comportamenti concludenti del contribuente, poiché i comportamenti concludenti del contribuente o le modalità di tenuta delle scritture contabili costituiscono elementi da cui desumere il regime applicabile in concreto (Cass. 26/09/2014, n. 20421; Cass. 04/07/2003, n. 10599); Ha errato, quindi, la commissione tributaria centrale nel ritenere che la scelta della contribuente per il regime ordinario dovesse essere oggetto di una espressa comunicazione formale all’Amministrazione, essendo sufficiente il comportamento concludente della ridetta, avuto anche riguardo alla regolare tenuta delle sue scritture contabili; In definitiva, accolto l’unico motivo di ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata e non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa con l’accoglimento del ricorso originario della contribuente, essendo incontroversa tra le parti l’opzione per il regime ordinario, esercitata nell’anno 1989 attraverso il comportamento concludente serbato dalla contribuente, accompagnato dalla tenuta in maniera regolare di tutte le scritture contabili previste dalla disciplina in materia di IVA;  Le spese del giudizio Sono compensabili, per gravi ed eccezionali ragioni nella misura dell’intero delle spese della fase di merito, mentre seguono la soccombenza quelle di legittimità; Studio legale Tributario Pirro Milano studiopirro@libero.it 3475404943 P.Q.M. Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso originario della contribuente. Compensa integralmente le spese del giudizio di merito tra le parti; condanna la controricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità sostenute dalla ricorrente, liquidate in complessivi euro 10.200,00, oltre alle spese generali al 15% e agli accessori di legge. Così deciso in Roma, il 15 novembre 2019.