Anno: 2020

UFFICIO ENTRATE RIDETERMINA L’IMPOSTA DI REGISTRO PERCHÉ RITIENE I BENEFICI “PRIMA CASA” NON SPETTANTI: LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE LOMBARDA CENSURA L’AVVISO DI LIQUIDAZIONE CON SENTENZA DI PRIMO GRADO E LO ANNULLA

Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO La Sentenza del 24/09/2020 n. 1992 Commissione Tributaria Regionale per la Lombardia vede la Sezione 21 statuire che: la Agenzia delle Entrate-Direzione Provinciale I di Milano, con atto di appello rituale e tempestivo, impugna la sentenza n.1629/16/19, della CTP di Milano, con la quale il Giudice di prime cure ” …. accoglie il ricorso e condanna parte resistente alle spese che liquida in euro 4.000,00 oltre oneri di legge”. Il sig. G. E., in prime cure, si è opposto all’avviso di liquidazione di Imposta di Registro per un ‘importo di euro 31.827,00, oltre sanzioni, relativo al contratto di mutuo in relazione a compravendita immobiliare del 2015, per la quale il contribuente aveva usufruito dei benefici prima casa in quanto l’immobile era accatastato in A/2. Successivamente, due anni dopo, l’Ufficio del Territorio accertava che l’immobile era da accatastare in A/1. A seguito di tale nuovo accatastamento, l’Ufficio chiedeva la revoca dei benefici prima casa su presupposto che l’immobile nel 2015 aveva le caratteristiche della categoria A/1 anche se “erroneamente” risultava accatastato in A/2. Il contribuente si è opposto a tale avviso sia perché la modifica catastale non può essere retroattiva e sia per il generale principio di affidamento di cui all’art.10, comma 2, dello Statuto del Contribuente; contestava inoltre l’ammontare delle sanzioni non ritenendole applicabili proprio per “il legittimo affidamento”. Il Giudice di prime cure ha accolto le ragioni del contribuente. Con l’atto di appello l’Ufficio reitera le proprie eccezioni di cui al primo grado chiedendo l’annullamento della sentenza appellata. Parte privata insiste nelle proprie posizioni insistendo per la conferma della sentenza impugnata dall’Ufficio. MOTIVI DELLA DECISIONE La Commissione ritiene di respingere l’appello dell’Ufficio e confermare la sentenza impugnata. La Commissione rileva che, i Giudici di prime cure hanno correttamente evidenziato che il riclassamento non ha effetto retroattivo. L’art.74, comma 1, della legge 342/2000 prevede che a decorrere dal 1/1/2000 gli atti modificativi delle rendite catastali per terreni e fabbricati sono efficaci solo a decorrere dalla loro notificazione a cura dell’ufficio competente: si comprende la ratio della norma anche perché la parte destinataria della modifica catastale ha il diritto di impugnare tale modifica. Ergo quando la modifica catastale effettuata diventa definitiva si può parlare di attribuzione catastale con tutte le conseguenze. In conclusione, come giustamente ha affermato il Giudice di prime cure, all’atto di acquisto dell’immobile la categoria catastale dell’immobile era A/2 e quindi la parte acquirente aveva i legittimi requisiti per chiedere e ottenere i benefici di prima casa. La Commissione ritiene, pertanto, di confermare la sentenza di prime cure. Le spese di lite seguono la soccombenza. Q. M. La Commissione respinge l’appello e condanna l’Ufficio alla rifusione delle spese del grado, liquidate in euro 3.700,00, oltre accessori di legge.  

DIREZIONE PROVINCIALE DI MILANO RIDETERMINA L’IRES DELLA SOCIETÀ CHE AVEVA, PERÒ, LEGITTIMAMENTE DEDOTTO LE QUOTE DI AMMORTAMENTO, E L’APPELLO DÀ RAGIONE AL CONTRIBUENTE.

Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943   SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con la Sentenza del 08/10/2020 n. 2249 la Comm. Trib. Reg. per la Lombardia Sezione 13 ha statuito che: l’Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale I di Milano impugna la sentenza n. 1497/5/2019 della Commissione tributaria provinciale di Milano, che ha accolto il ricorso delle ricorrenti R. S. M. srl e A. C. P. spa contro l’avviso di accertamento relativo all’Ires anno di imposta 2015. L’Ufficio rileva che il contribuente operatore del settore delle energie rinnovabili ha determinato in modo erroneo il coefficiente di ammortamento di un impianto eolico, al quale si sarebbe dovuto applicare il coefficiente del 4%, corrispondente a quello applicabile, sempre per il settore dell’energia eolica e termoelettrica, ai fabbricati destinati all’industria, conformemente a quanto disposto dalla circolare n. 36/E del 2013. L’Amministrazione finanziaria, ritenendo la torre eolica bene immobile D/1, rettifica l’aliquota di ammortamento, contestando quote di ammortamento non deducibili. In particolare, opera due rilievi: il primo relativo alle quote di ammortamento degli impianti eolici non deducibili, e il secondo relativo alle quote di ammortamento dei costi di sviluppo non deducibili pari ad euro 13.580,53. La parte ricorrente rileva la violazione dell’art. 102 DPR 917/86 e del DM 31.12.1988 e osserva che la circolare 36/E del 2013 affronta gli aspetti catastali e fiscali dei parchi fotovoltaici, e non impianti eolici, e rileva che ex art.1 L. 208/2015 le componenti impiantistiche, c.d. imbullonati”, non hanno più rilevanza catastale La sentenza accoglie il motivo del ricorso, secondo il quale gli impianti di generazione dell’energia elettrica che utilizzano la fonte eolica non possono essere considerati alla stregua di meri fabbricati destinati all’industria, per i quali il DM 31.12.1988 stabilisce l’aliquota del 4%.Il criterio della individuazione del coefficiente di ammortamento si conforma al principio del normale periodo di deperimento e consumo, posto dall’art. 102 comma 2 TUIR. Secondo la sentenza, la componente impiantistica dell’impianto eolico, soggetta ad un accelerato processo di deperimento, non può essere considerato alla stregua di un fabbricato, bensì ricondotta alla componente mobiliare per la quale il coefficiente di ammortamento è pari ad euro del 9%. In particolare, la sentenza afferma che l’accertamento si basa non su specifica norma di legge, bensi’ su una circolare, e statuisce che la cd interpretazione ministeriale, consacrata nella circolare, non ha alcuna efficacia vincolante nei confronti del contribuente e del giudice amministrativo, né costituisce fonte di diritto. Inoltre, osserva che la “torre eolica” va esclusa dalla aliquota del bene immobile , trattandosi di elemento funzionale specifico al processo produttivo, ” imbullonata al basamento cementizio”, secondo quanto è disposto dall’intervento legislativo ex art. 1 commi 21 e 22 L. 208/15. Le spese vengono compensate. La Agenzia presenta impugnazione e chiede la riforma della sentenza impugnata, con condanna alle spese. 1) Preliminarmente, l’appellante deduce l’erroneità della sentenza nella parte nella quale afferma che l’accertamento dell’amministrazione finanziaria si basa non su specifica norma di legge, bensì su una circolare, posto che la circolare richiamata contiene una ampia ricostruzione di tutta la normativa del settore. 2) Inoltre, secondo l’appellante Ufficio, la sentenza si fonda sulla disposizione di un norma di cui all’art. 1 commi 21 e 22 L. 208/2015, che non è applicabile ratione temporis per espressa previsione legislativa. 3) L’appellante deduce, in relazione alla natura dell’impianto eolico, di avere preso le mosse dall’attribuzione della qualifica di immobile in virtu’ della rilevanza catastale e rileva come tale criterio sia stato confermato dalla giurisprudenza di merito e legittimità, che è andata oltre l’esame della questione meramente catastale, evidenziando la natura stessa degli impianti, qualificandoli in modo diretto come beni immobili, affermando come le componenti murarie (torri eoliche) non siano semplici pali, bensì’ strutture stabilmente ancorate al suolo (e quindi immobili). In particolare osserva come la Circolare 3/T/2008 abbia qualificato gli impianti fotovoltaici sulla base della loro rilevanza catastale e ne abbia esteso il principio anche agli impianti eolici. Ne deriva che agli impianti eolici in esame si sarebbe dovuto applicare il coefficiente del 4%, corrispondente a quello applicabile, sempre per il settore dell’energia eolica e termoelettrica, ai fabbricati destinati all’industria, secondo il DM 31.12.1988 tenuto conto che è la stessa contribuente che sottolinea come gli impianti eolici in esame presentino caratteristiche costruttive , data la presenza di rilevanti opere murarie ed ingegneristiche, molto piu’ simili a quelle delle centrali termoelettriche ed idroelettriche. In altri termini, le caratteristiche strutturali degli impianti eolici in esame, evidenziati dalla stessa società appellata, ne impediscono, secondo l’Ufficio appellante, la qualifica di beni mobili, operata dalla sentenza impugnata, senza peraltro adeguatamente motivare sul punto. Sotto diverso profilo, l’appellante deduce che comunque lo spostamento dell’impianto eolico comporterebbe un intervento antieconomico di adattamento, criterio elaborato dalla giurisprudenza per distinguere i beni immobili dai mobili. Ancora, deduce che il riferimento contenuto nell’art. 102 comma 2 Tuir “al normale periodo di deperimento e consumo” non puo’ comportare e giustificare una deroga ai coefficienti di cui al decreto ministeriale 31.12.1988, che definisce “unità immobiliari i manufatti prefabbricati sebbene appoggiati al suolo, quando siano stabili nel tempo e presentino autonomia funzionale e reddituale”. Pertanto gli impianti eolici nel caso di specie, e in particolare “le cosiddette torri o pali eolici” , aventi caratteristiche tipologiche e costruttive con caratteri di stabilità, costituenti strutture stabilmente ancorate al suolo, devono essere inquadrati tra i beni immobili con coefficiente di ammortamento del 4% ex DM 31.12.1988. In atri termini, secondo l’Ufficio, l’attribuzione della qualifica di immobili agli impianti eolici dapprima è stata fatta discendere dalla rilevanza catastale di tali beni e poi dal criterio, elaborato dalla giurisprudenza, relativo alle caratteristiche tipologiche e costruttive con caratteri di stabilità, solidità e consistenza volumetrica, caratteristiche integrate da beni mobili cd imbullonati, equiparati ai veri e propri beni immobili. Cita sul punto giurisprudenza di legittimità del 2004 e più recente giurisprudenza di merito. 4) L’ufficio appellante deduce ancora l’irrilevanza dell’annullamento dell’accertamento ai fini Irap per la medesima annualità nei confronti della R. S. M. srl. Sottolinea al riguardo che è stato esercitato il potere di autotutela per un’erronea determinazione della base imponibile, in seguito al sganciamento del tributo regionale dall’imposta sul reddito della

L’AGENZIA DELLE ENTRATE NON RICONOSCE IL CREDITO PER IMPOSTE PAGATE ALL’ESTERO MA LA COMMISSIONE TRIBUTARIA DELLA LOMBARDIA RIGETTA L’APPELLO DELL’AGENZIA PERCHÉ IL DIRITTO ALLA DETRAZIONE SUSSISTE

Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943                                                               IL PROCESSO Con la Sentenza del 20/10/2020 n. 2385 vediamo la Comm. Trib. Reg. per la Lombardia, Sezione 12, statuire che: l’Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Milano, propone appello avverso la sentenza n. 3585/2018 con la quale la Commissione Tributaria Provinciale di Milano accoglie il ricorso di D. N. G. avverso la cartella di pagamento emessa dall’Ufficio ai sensi dell’art. 36 ter DPR 600/73 con il quale si richiedeva il pagamento della somma di euro 18.249,00 per l’anno di imposta 2012, dovuta per il mancato riconoscimento del credito di imposta derivante da redditi prodotti all’estero negli anni 2010 e 2011 per decadenza, poiché le somme dovevano essere indicate nelle dichiarazioni relative agli anni in cui le somme erano state percepite. Rileva il primo giudice che, ferma restando al correttezza delle somme esposte, non contestate, le stesse legittimamente sono state indicate, sia pure in anni diversi, non essendo stato previsto dal legislatore, a seguito nella modifica intervenuta all’art. 165 TUIR, un termine decadenziale per la esposizione dei crediti nella dichiarazione. L’Ufficio esponeva i seguenti motivi: -violazione del comma 4 dell’art. 165 TUIR poiché i crediti relativi alle imposte pagate all’estero devono essere indicati nella dichiarazione relativa all’anno di riferimento. Ai sensi del comma 7 dello stesso articolo, ove il termine per la presentazione della dichiarazione fosse intervenuto prima della definitività dell’imposta pagata all’estero, il contribuente dovrà procedere a nuova liquidazione nella prima dichiarazione utile, con le limitazioni previste dallo stesso comma in ordine al calcolo del reddito. La norma non è applicabile al caso di specie, poiché il contribuente non ha fornito alcuna prova in ordine alla circostanza che le imposte pagate all’estero siano divenute definitive in data antecedente la presentazione delle relative dichiarazioni, tale non potendosi ritenere il CUD emesso dal datore di lavoro; – il credito di imposta non può in ogni caso essere riconosciuto per l’anno 2010, poiché il contribuente non ha presentato la dichiarazione dei redditi necessaria ai fini del riconoscimento del credito di imposta; – la censura che il disconoscimento del credito di imposta non possa essere effettuata attraverso le procedure previste dall’art. 36 ter DPR 600/73 non è fondata, poiché prevista dal testo dell’articolo. L’Ufficio ha chiesto pertanto, in riforma della sentenza impugnata, la conferma della legittimità della cartella. Si è costituito il contribuente chiedendo la conferma della sentenza impugnata e rilevando in particolare come non sia previsto alcun termine di decadenza per l’indicazione dei crediti di imposta per i redditi prodotti all’estero. Il contribuente ha pure precisato che i calcoli deli crediti sono stati eseguiti secondo quanto previsto dal comma 7 dell’articolo 165 citato e, in particolare, di avere calcolato il credito tenendo conto dei redditi relativi a ciascun anno di competenza. Alla pubblica udienza del 28 settembre 2020 le parti hanno concluso riportandosi alle conclusioni prese nei rispettivi atti. La causa è stata trattenuta a sentenza e decisa con il presente atto. Motivi della decisione L’appello dell’Agenzia delle Entrate è infondato e deve essere respinto. Rileva preliminarmente la Commissione che il primo giudice, con un percorso argomentativo privo di censure, sia in fatto che in diritto, ha spiegato le ragioni che hanno condotto all’accoglimento del ricorso del contribuente. Tale motivazione viene qui richiamata e fatta propria dalla Commissione che si limiterà a valutare le specifiche censure rilevabili nei motivi di appello esposti dall’appellante. Con il primo motivo l’Ufficio deduce violazione e falsa applicazione del comma 4 dell’art. 165 d.p.r.917/86, poiché la detrazione per le imposte pagate nello Stato estero dove i redditi sono stati prodotti debbono, a pena di decadenza, essere richieste nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta di detto reddito (2010 e 2011), mentre il contribuente li ha inseriti nella dichiarazione dei redditi per l’anno 2012, cumulando i redditi. Non è corretto il richiamo al comma 7 del medesimo articolo, poiché il contribuente non ha provato di avere pagato le imposte in via definitiva nel paese estero. Il motivo non è fondato. La dedotta decadenza, non solo non è prevista dalla legge ma è specificamente smentita, sia pure sotto altro profilo, dal disposto del comma 7 dell’art. 165 citato che consente l’esposizione del credito di imposta di cui è causa nella dichiarazione dei redditi dell’anno in cui i versamenti esteri siano divenuti definitivi e siano stati certificati in Italia. Sulla base di tale normativa il contribuente ha provveduto a ricalcolare il reddito sulla base delle risultanze delle dichiarazioni dei redditi degli anni di competenza, provvedendo al ricalcolo di detto reddito e a esporre il risultato ottenuto nell’apposita sezione della dichiarazione dei redditi per l’anno 2012. Non corrisponde al vero, quindi, che il contribuente abbia cumulato i redditi relativi all’anno 2012 con quelli degli anni precedenti, provvedendo a un errato calcolo delle detrazioni spettanti. Il secondo motivo non è fondato, poiché il contribuente ha fornito prova dell’avvenuto pagamento delle imposte all’estero, dove lavorava per conto di un’impresa italiana, allegando dichiarazione del datore di lavoro. E’ evidente che, essendo il D. dipendente di un ‘impresa italiana, il calcolo delle detrazioni dovute sia stato effettuato dal datore di lavoro che lo ha certificato, detraendo gli importi sulla base dei calcoli che avrebbe effettuato nel caso in cui il reddito prodotto all’estero fosse stato prodotto in Italia e sulla base dei singoli redditi prodotti negli anni 2010 e 2011. Ne consegue che tale attestazione rappresenta la prova della definitività delle imposte pagate all’estero verificatasi in data successiva alla presentazione delle relative dichiarazioni. Con il terzo motivo di appello l’Ufficio deduce che il credito di imposta non poteva in ogni caso essere riconosciuto per l’anno 2010, poiché il contribuente non aveva presentato la dichiarazione dei redditi necessaria ai fini del riconoscimento del credito di imposta. Anche questo motivo è infondato. Il contribuente per l’anno indicato non doveva presentare la dichiarazione dei redditi e il calcolo delle detrazioni dovute è stato correttamente effettuato sulla base delle risultanze del CUD a suo tempo rilasciato dal datore di lavoro, unico soggetto deputato a indicare i redditi percepiti e,

NONOSTANTE L’AGENZIA DELLE ENTRATE AVESSE ERRONEAMENTE ESTESO ALL’ AMMINISTRATORE DI FATTO LA RESPONSABILITÀ PER LE SANZIONI PECUNIARIE, SI COSTITUISCE UGUALMENTE IN SECONDO GRADO, E VIENE DICHIARATA SOCCOMBENTE DAL GIUDICE

Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943 FATTO E DIRITTO Nella sentenza del 20/10/2020 n. 2392 della Commissione Tributaria Regionale per la Lombardia, alla Sezione 22, ha statuito che: con ricorsi alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano rubricati a1 n. 4214/2017 e 4215/2017 R.G.R (riuniti), A. D. impugnava gli avvisi (di accertamento ndr) n° TXXXXXXXXX/2017 e n° TYYYYYYYYY/2017 nei quali veniva individuato quale amministratore di fatto di T. soc. coop. a.r.l. in liquidazione e ritenuto responsabile in solido per le sanzioni per i periodi di imposta 2011 e 2012. La commissione Tributaria Provinciale di Milano, con sentenza n. 1422/16/2019 depositata il 27/03/2019, ritenuta provata la qualifica di amministratore di fatto del ricorrente, respinge i ricorsi riuniti e compensa le spese in ragione della complessità. Propone appello il sig. D. A. eccependo 1) l’insussistenza della responsabilità solidale per le sanzioni essendo le sanzioni amministrative a carico esclusivo della persona giuridica nei confronti della quale è contestata la violazione tributaria 2) la nullità degli avvisi di accertamento per violazione del contraddittorio preventivo e dell’art. 7 Legge 27 luglio 2000. Conclude pertanto chiedendo di voler annullare e/o comunque riformare la sentenza impugnata. Si costituisce l’Agenzia delle Entrate formulando le proprie controdeduzioni nelle quali eccepisce l’infondatezza dell’appello di controparte ribadendo la responsabilità solidale per le sanzioni in capo al sig. A. nonché la insussistenza di alcun obbligo per l’amministrazione finanziaria di avviare il contraddittorio, non ricorrendo un obbligo generale di contraddittorio, né uno dei casi in cui qualche disposizione speciale prevedeva diversamente. Conclude, pertanto, chiedendo di rigettare l’appello confermando la sentenza impugnata e per l’effetto dichiarare la legittimità degli atti impugnati nonché condannare la parte avversa alla rifusione delle spese legali per entrambi i gradi di giudizio. L’appello viene discusso e deciso nell’udienza del 23/09/2020. In via preliminare il legale del ricorrente durante l’udienza produceva copia delle sentenze n. 4303/16/2018, 5927/12/18 e 193/16/2020 emesse dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano e sentenza n. 4308/2019 emessa dalla Commissione Tributaria Regionale Lombardia, la parte Resistente non si opponeva. Le parti, chiedevano in sede di udienza la unificazione della discussione dei ricorsi rubricati RG 4022/2019 e RG 3219/2019. La commissione esaminata la documentazione agli atti, non ha ritenuto possibile l’unificazione dei processi. MOTIVI DELLA DECISIONE Il collegio ritiene legittime le motivazioni, con cui il ricorrente lamenta la violazione del D.L. n. 269 del 2003, art. 7, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 326 del 2003, per avere la CTP erroneamente esteso all’ amministratore di fatto la responsabilità per le sanzioni amministrative pecuniarie applicate alla società. L’art. 7 del D.L. 269/2003, nell’affermare che “le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica” esclude chiaramente ogni forma di (co)responsabilità amministrativa dell’autore materiale dell’illecito fiscale, sia esso formalmente investito del potere di amministrazione o mero gestore di fatto. In senso conforme si richiama la sentenza n. 10975 del 18 aprile 2019 con cui la Cassazione ha ribadito che ” Le sanzioni amministrative relative al rapporto tributario proprio di società o enti con personalità giuridica, sono esclusivamente a carico della persona giuridica anche quando sia gestita da un amministratore di fatto, non potendosi fondare un eventuale concorso di quest’ultimo nella violazione fiscale sul disposto di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 9, che non può costituire deroga al predetto art. 7, ad esso successivo, che invece prevede l’applicabilità delle disposizioni del D.Lgs. n. 472, ma solo in quanto compatibili” (confermando così un consolidato orientamento giurisprudenziale: ex multis Cass. nn. 19716/2013, 4775/2016, 25284/2017). In via di principio, in presenza di violazioni delle norme fiscali commesse da un amministratore di fatto di società di capitali o enti con personalità giuridica, l’unico soggetto cui è ascrivibile la responsabilità amministrativa è l’Ente. Tuttavia, tale principio non opera nell’ipotesi di società artificiosamente costituita, poiché in tal caso la persona giuridica è una mera fictio creata nell’interesse della persona fisica, esclusiva beneficiaria delle violazioni, sicché non vi è alcuna differenza fra trasgressore e contribuente (Cass. 10975/2019). Nel caso di specie, le sanzioni erano state contestate sia alla società che al suo presunto amministratore di fatto. Trovando applicazione la regola della riferibilità esclusiva alle persone giuridiche delle sanzioni amministrative tributarie, introdotta dall’art. 7, c. 1, d.l. n. 269 del 2003, l’amministratore di fatto non poteva essere chiamato a rispondere, in via solidale, per il pagamento di sanzioni elevate a carico della società, non soltanto perché comminate in epoca successiva rispetto all’entrata in vigore della richiamata norma, ma anche e soprattutto in considerazione della mancata prova in ordine al profitto che il medesimo avrebbe realizzato dalle violazioni contestate alla società. Risulta assorbito ogni altro motivo di appello in quanto risulta illegittima per carenza di legittimazione passiva e, per i motivi sopra illustrati, l’attribuzione di responsabilità solidale al contribuente delle violazioni della società. Il collegio ritiene, comunque anche fondato il principio del contraddittorio, che è posto a garanzia e tutela del contribuente ed è da ritenersi elemento essenziale e imprescindibile ai fini della regolarità della condotta dell’Amministrazione, come sancito in numerose pronunce della Cassazione (si vedano le sentenze della Suprema Corte di Cassazione n. 26635 del 2009, n. 18906 del 2011 e n. 14026 del 2012). La Commissione accoglie l’appello, e in ragione della complessità e particolarità della materia trattata e soprattutto della complessità della vicenda sottesa alla causa dispone la compensazione delle spese di lite del doppio grado di giudizio. P.Q.M La Commissione Tributaria Regionale di Milano, Accoglie l’appello del contribuente e compensa le spese.    

GLI AVVISI DI ACCERTAMENTO RIDETERMINANO I REDDITI DI LAVORO ALLA DIPENDENTE DEL CONSOLATO. COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI MILANO LI ANNULLA PERCHÉ PRETESTUOSI, DESTITUITI DI FONDAMENTO E SMENTITI DALLE STESSE FONTI RICHIAMATE DALLA AGENZIA DELLE ENTRATE, CHE VIENE CONDANNATA ALLE SPESE.

Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943   MOTIVI DELLA RICORRENTE Nella Sentenza del 22/10/2020 n. 1932 – Comm. Trib. Prov. Milano Sezione/Collegio 7,  con ricorso depositato il 20/08/2019 la Sig.ra F. E. ricorreva ai sensi del art. 17-bis D.Lgs 546/92 con istanza di pubblica udienza e successiva istanza di sospensione contro l’Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale I di Milano per l’integrale annullamento degli avvisi di accertamento per l’anno 2014 e per l’anno 2015 e per l’anno 2016, con i quali l’Ufficio, contestando la mancata presentazione della dichiarazione fiscale per gli anni suindicati, accertava ai fini IRPEF ed addizionali ex art. 41 bis DPR 600/73 il reddito di lavoro dipendente pari rispettivamente ad E 36.640,00, E 32.096,00 ed E 36.383,00 per i tre anni considerati. La ricorrente eccepiva l’errata tassazione e determinazione del reddito di lavoro dipendente, percepito in qualità di cittadina argentina impiegata consolare presso il Consolato Generale della Repubblica Argentina sulla base dell’ esenzione prevista ai sensi del TUIR ed in ragione delle norme del diritto internazionale e della convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 24/04/1963.   FATTO E DIRITTO Con gli avvisi di accertamento, seguiti ad un percorso di indagine relativi ai redditi da lavoro dipendente erogati da Ambasciate, Consolati ed altre organizzazioni internazionali, l’Ufficio controlli, tramite i dati retributivi e contributivi comunicati all’INPS dagli enti ed organizzazioni che hanno sede in Italia, verificava l’imponibile previdenziale (Parte C del Cud) rilasciato dal Consolato Argentino, “copiandolo” quale reddito imponibile a carico delle ricorrente e senza depurarlo, ai sensi dell’art. 10 co. 1 lett.e) TUIR, dei contributi a carico del dipendente trattenuti dal datore di lavoro, lo assumeva erroneamente quale reddito, determinando maggiori imposte, interessi e sanzioni, contestati nel calcolo dalla ricorrente per violazione di legge, in quanto redditi erogati dal Consolato ed esenti – come documentato dalle certificazioni Cud 2014, 2015, 2016 (All. 2) e successivi anni -, quindi non soggetti ad imposta né a dichiarazione. L’Agenzia, respinto il reclamo, si costituiva dando atto della errata determinazione della base imponibile e di avere proceduto in autotutela alla scomputo dei contributi obbligatori trattenuti dal sostituto d’imposta e di conseguenza alla rideterminazione del reddito complessivo; dichiarava altresì che erano state oggetto di annullamento le sanzioni comminate per i tre anni d’imposta, essendosi ritenuto corretto uniformarsi a quanto già disposto con riferimento agli avvisi di accertamento relativi agli anni 2012-2013. Nel merito l’Ufficio, pur considerando la cittadinanza argentina della ricorrente e non contestando l’impiego consolare della stessa, con retribuzione corrisposta e percepita a causa esclusiva dell’esercizio delle funzioni consolari, chiedeva il rigetto del ricorso e condanna alle spese. Con memoria del 15/11/2019 la ricorrente insiste nelle conclusioni del ricorso per illegittimità della pretesa nell’an e nel quantum, con integrale annullamento degli accertamenti per violazione delle norme di legge con i riferimento alla Convenzione di Vienna ed alle norme di diritto internazionale; in subordine, annullamento delle maggiorazioni a titolo di sanzioni e interessi, con rideterminazione del reddito e vittoria di spese. Tanto premesso, esaminati gli atti, la Commissione ritiene il ricorso della contribuente fondato e meritevole di accoglimento per i seguenti motivi. L’Agenzia nonostante l’annullamento parziale degli avvisi in seguito all’errore commesso nell’accertamento, insiste per la tassazione della retribuzione accreditata dal Consolato argentino ritenendo la fattispecie regolata dalla specifica Convenzione (su Mod. di Convenzione OCSE) contro le doppie imposizioni fra la Repubblica Italiana e la Repubblica Argentina ratificata con legge n. 282/1982 (art.19– funzioni pubbliche) (I) “secondo cui i cittadini stranieri, anche se fiscalmente residenti in Italia, non sconteranno imposta sul reddito percepito dall’ente estero, per effetto della Convenzione di Vienna del 1963 e per effetto deli ‘art. 4 comma 1 del Dpr n. 601/73, purché la residenza fiscale in Italia sia stata acquisita solo in funzione della prestazione lavorativa svolta presso lo stesso ente estero“. La ricorrente, rientrerebbe in questa ipotesi avendo avuto la residenza fiscale in Italia fin dal giugno 1975 (a11.4) e solo successivamente (dall’ 11 Aprile 1979) avendo 1) Art. 19 Funzioni pubbliche 1 a) Le remunerazioni, diverse dalle pensioni, pagate da uno Stato contraente o da una sua suddivisione politica o amministrativa o da un suo ente locale a una persona fisica, in corrispettivo di servizi resi a detto Stato o a detta suddivisone od ente locale, sono imponibili solo in detto Stato. b) Tuttavia, tali remunerazioni sono imponibili soltanto nell’altro Stato contraente qualora i servizi siano resi in detto Stato e la persona che è residente di detto Stato: i) abbia la nazionalità di detto Stato; o ii) non sia divenuta residente di detto Stato al solo scopo di rendervi i servizi e iniziato a prestare servizio come impiegata consolare presso Il Consolato Generale Argentino. L’Ufficio, con un margine di apprezzamento del tutto discrezionale del disposto normativo, ritiene cioè che la residenza fiscale della ricorrente non fosse temporalmente congrua con l’assunzione presso il Consolato, opinando che il certificato storico di residenza e la data di assunzione presso il Consolato medesimo fossero i soli elementi da dover correlare in un determinato lasso di tempo, deducendone che la mancata correlazione sarebbe elemento sufficiente per ritenere che la residenza in Italia non fosse funzionale alle attività consolari, svolte invece dalla ricorrente sin dal suo arrivo in Italia nel 1975. Tale motivazione è pretestuosa, destituita di fondamento e smentita dalle stesse Convenzioni internazionali richiamate dalla Agenzia, nonché dal complesso delle norme del nostro sistema costituzionale e ordinamentale, conformantesi al riconoscimento del diritto internazionale e degli accordi e trattati ratificati. L’esenzione è infatti di palmare evidenza ex art. 49 della Convenzione di Vienna sulle Relazioni Consolari del 24/04/1963 (2), ratificata con legge 9/08/1967 n. 802 ( entrata in vigore il 25/7/1969) e rappresentante una fonte normativa speciale che deroga alla disciplina nazionale in tema di tassazione: essa prevede un’esenzione da imposizione legata alla cittadinanza estera del funzionario, anche se lo stesso e la sua famiglia sono fiscalmente residenti in Italia. Come specificato dalla norma, l’esenzione da tassazione riguarda esclusivamente i redditi percepiti nello svolgimento del proprio incarico del funzionario di rappresentanza consolare, mentre

LA CORTE RILEVA L’ERRONEITÀ DELL’AVVISO DI ACCERTAMENTO DELL’AGENZIA, NELLA PARTE IN CUI RECUPERA I COSTI SENZA ABBATTIMENTO DEI RICAVI, E ACCOGLIE IL TERZO MOTIVO DEL RICORSO DEL CONTRIBUENTE

PROCESSO TRIBUTARIO In caso di rideterminazione del reddito, a seguito di costi asseritamente fittizi, l’Agenzia delle Entrate deve comunque procedere ad abbattere anche i ricavi, diversamente, l’accertamento degli stessi è illegittimo:  motivo del ricorrente accolto.   Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943   IL PROCESSO Sentenza del 30/09/2020 n. 20831 la Corte di Cassazione – Sezione/Collegio 5: La Commissione tributaria regionale del Piemonte accoglieva inizialmente l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza n. 60/01/09 della Commissione tributaria provinciale di Novara, che aveva accolto il ricorso proposto dalla Be. s.r.l. nei confronti di un avviso di accertamento per IRPEG, IRAP e IVA. L’avviso di accertamento traeva origine da un controllo eseguito dalla Guardia di finanza nei confronti della ditta individuale, la quale aveva venduto dei macchinari, oggetto di successiva rivendita a società di leasing a prezzo maggiorato; tali ultime società avevano ceduto, quindi, in leasing i menzionati macchinari ad una cooperativa a responsabilità limitata e ad una società a responsabilità limitata s.r.l., società che successivamente venivano dichiarate fallite; le menzionate operazioni di acquisto e rivendita venivano considerate inesistenti  e finalizzate «a consentire l’accesso al credito ed ottenere illecitamente liquidità». La CTR motivava l’accoglimento dell’appello dell’Agenzia delle entrate evidenziando che in relazione agli elementi indiziari versati in atti (elementi emersi sia dalla contabilità di E., sia da una diretta verifica nei confronti di B., sia dai collegamenti tra i dati acquisiti) doveva ritenersi la simulazione delle vendite effettuate da E. a B., anche perché le due società utilizzatrici, M. s.coop.r.l. e T. s.r.l., coincidevano sostanzialmente con la stessa E.;  la circostanza che tra gli intermediari erano presenti anche società di leasing non era significativa, «svolgendo usualmente detti operatori l’istruttoria relativa a cessione di macchinari sulla base della documentazione fornita dalle ditte interessate, senza necessità di visionare o ispezionare i beni oggetto di locazione finanziaria». La ditta individuale B. impugnava la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato a sei motivi. L’Agenzia delle entrate si costituiva in giudizio al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa ai sensi dell’art. 370, primo comma, cod. proc. civ.   RAGIONI DELLA DECISIONE Con il primo motivo di ricorso B. contesta la violazione o la falsa applicazione dell’art. 36 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 e dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc. civ., per la mancanza, nella sentenza impugnata, di alcun riferimento normativo e di diritto in relazione alla legittimità dell’accertamento. Il motivo, che va riqualificato ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., denunciando sostanzialmente un error in procedendo, è infondato. La sentenza della CTR è motivata sia in fatto che in diritto con riferimento agli elementi indiziari acquisiti agli atti e ritenuti sufficienti a supportare l’accertamento dell’Agenzia delle entrate. Non ha, infatti, alcun rilievo la circostanza che la sentenza non abbia dato specificamente conto delle norme di legge applicabili alla fattispecie, essendo sufficiente, ai fini della validità della sentenza, che a dette norme si sia fatto concretamente riferimento. Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione o la falsa applicazione dell’art. 113 Cost. e dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., non avendo l’Agenzia delle entrate assolto all’onere probatorio sulla stessa gravante, in quanto gli elementi indicati dalla CTR non sono indicativi della inesistenza delle operazioni poste in essere da B. La ricorrente denuncia, da un lato, la violazione delle regole inerenti al riparto dell’onere probatorio in giudizio e, dall’altro, la circostanza che gli elementi indiziari considerati dalla CTR non sarebbero sufficienti a ritenere la fittizietà delle operazioni di acquisto e rivendita di macchinari compiute da B. Sotto il primo profilo, la sentenza impugnata ha correttamente addossato in capo all’Amministrazione finanziaria l’onere di provare la simulazione dell’operazione di acquisto e rivendita, ritenendo, altresì, tale onere assolto sulla base degli elementi indiziari acquisiti agli atti di causa. Sotto il secondo profilo la contestazione delle argomentazioni della CTR in ordine al raggiungimento della prova della inesistenza delle operazioni poste in essere dalla società contribuente integra un vizio di motivazione (peraltro, contestato con il sesto motivo) e non già un vizio di violazione di legge. Con il sesto motivo di ricorso, il cui esame appare preliminare agli altri motivi, B. deduce appunto il vizio di insufficiente motivazione della sentenza impugnata, evidenziando che le conclusioni raggiunte dalla stessa in ordine alla inesistenza delle operazioni di acquisto e rivendita non avrebbero tenuto conto delle deduzioni difensive della società contribuente. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, «la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione» (Cass. S.U. n. 24148 del 25/10/2013; Cass. n. 29404 del 07/12/2017). Inoltre, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza, impugnata con ricorso per cassazione, conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale (sottoposta al suo vaglio) ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo,

L’AVVISO DI LIQUIDAZIONE DELLA MAGGIORE IMPOSTA SULLA SUCCESSIONE EREDITARIA ERA ILLEGITTIMO PERCHÉ IL FUNZIONARIO AVEVA INTERPRETATO ERRONEAMENTE LE NORME. EREDI E DONATARI SOLLEVATI DAL PRELIEVO NON DOVUTO

PROCESSI TRIBUTARI Imposta di registro sulla successione ereditaria: l’Agenzia delle Entrate sommava (cd. “cumulo”) il quantum ereditato dal figlio e dai nipoti (cd. donatum) a quanto ricevuto dagli stessi come donazione (cd. donatum). Liquidava pertanto maggiore imposta per euro 38 mila per il figlio e 32 mila ciascuno per i nipoti. Il valore globale netto non andava però maggiorato. La corte rigettava l’appello dell’Ufficio e condannava la stessa alle spese (annullando l’avviso di liquidazione illegittimo ndr).   Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943 dopo le 14:00   LA DOMANDA Sentenza del 10/12/2019 n. 4961 della Commissione Tributaria Regionale Lombardia. Con atto, ritualmente notificato l’AGENZIA DELLE ENTRATE D.P. I DI MILANO interponeva appello avverso la sentenza n. 13/12/19 emessa dalla sezione 12 della Commissione Tributaria Provinciale di Milano in data 19/11/2018 e depositata in data 03/01/2019 statuendo avverso avviso di liquidazione n. XX avente ad oggetto imposta di registro dovuta per l’anno 2017 che l’agenzia aveva richiesto ai sigg. G. F. M., G. R., G. G. e D. C. quale maggior imposta dovuta dagli eredi quale “cumulo” dei valori di “relictum e donatum”. I Giudici di prime cure accoglievano il ricorso nella parte relativa al cumulo in quanto l’imposta è posta a carico dei contribuenti e non del “de cuius“, confermando il resto e compensando le spese. L’agenzia nel suo appello non contesta il legato relativo alla sig.ra D C , per cui io stesso deve considerarsi definitivo non essendo stato impugnato; il contenzioso resta quindi in essere per l’imposta richiesta al figlio per euro 38.462,28 ed ai due nipoti ciascuno per Euro 32.308,50. L’agenzia ritiene corretto sommare, al valore dei beni caduti in successione, il valore attuale di tutte le donazioni effettuate dal de cuius quando lo stesso era in vita e da tale somma detrarre la quota parte relativa alla c.d. “quota esente”, anche in considerazione che l’imposta dovuta è ora fissata sulla base del grado di parentela. Chiede quindi la riforma della sentenza impugnata e le spese relative ai due gradi di giudizio che quantifica in euro 8.565,20 come da nota spese depositata. Si costituiscono i contribuenti che contestano le affermazioni dell’agenzia, richiamando anche sentenze di Cassazione e chiedendo l’inammissibilità dell’appello per mancanza specifica dei motivi di censura della sentenza impugnata oltre alla vittoria delle spese del grado che quantifica in euro 10.706,50 come da nota spese depositata in udienza IL PROCESSO All’odierna pubblica udienza sono presenti i difensori delle parti, come da verbale d’udienza. Udita la relazione del relatore, le parti presenti confermano quanto esplicitato dallo stesso concludendo per le opposte ragioni. La causa prosegue in camera di consiglio. I MOTIVI La somma dei valori attuali dei beni donati con quanto caduto in successione era previsto dall’art. 8, 4 comma, del D. Lgs. 346/90 secondo cui: “Il valore globale netto dell’asse ereditario è maggiorato, ai soli fini della determinazione delle aliquote applicabili a norma dell’art. 7, di un importo pari al valore attuale complessivo di tutte le donazioni fatte dal defunto agli eredi e ai legatari; il valore delle singole quote ereditarie o dei singoli legati è maggiorato, agli stessi fini, di un importo pari al valore attuale delle donazioni fatte a ciascun erede o legatario”. Il sistema impositivo mediante aliquote progressive era tuttavia già venuto meno prima dell’apertura della successione in oggetto, in forza dell’articolo 69, l comma lett. c) della L. 342/00 (recante aliquote fisse in ragione del grado di parentela). Non mancano plurimi e convergenti precedenti giurisprudenziali di legittimità secondo cui la previsione di cui al citato art. 8, comma 4, del D. Lgs. 31 ottobre 1990, n 346 – prescriveva il coacervo del donatum con Il relictum – che non era finalizzato a ricomprendere nella base imponibile anche imposizione), ma unicamente a stabilire una forma di riunione fittizia nella massa ereditaria dei beni donati, ai soli fini della determinazione dell’aliquota da applicare per calcolare l’imposta sui beni relitti. Il sistema della ‘riunione fittizia’, in altri termini operava in funzione chiaramente antielusiva, così da evitare che il compendio ereditario venisse sottratto all’imposizione progressiva mediante preordinate donazioni in vita da parte del de cuius. Ora, una volta differenziate le aliquote di legge sulla base del criterio primario e non dell’ammontare crescente del compendio ereditario, ma del rapporto di parentela, non poteva residuare alcuna ratio antielusiva. In tale situazione normativa sono poi sopravvenute la soppressione dell’imposta sulle successioni e donazioni (L.383/01) e la sua re-istituzione ad opera del D.L. 262/06 convertito in L. 286/06. Disciplina, quest’ultima, che ha anche formalmente eliminato, abrogandola espressamente nell’art. 2 comma 52, la norma (ossia l’articolo 7 commi da’ 1 a 2 quater del D. Lgs. 346/90) che costituiva il riferimento imprescindibile del già citato art. 8, 4 comma. La disciplina qui applicabile (art. 2 comma 50 L. 286/06) pertanto richiama, per quanto non disposto dai commi da 47 a 49 e da 51 a 54, le disposizioni del D. Lgs. 346/90 in quanto compatibili, ma le ragioni di incompatibilità del cumulo ex art.8 citato permangono e trovano conferma anche alla luce della disciplina della reintrodotta imposta di successione; applicata secondo aliquote fisse sul valore complessivo dei beni devoluti a ciascun erede o legatario in ragione del rapporto di parentela. Di conforme parere vi sono plurimi e convergenti precedenti giurisprudenziali di legittimità (Cass. nn. 26050/2016; 24940/2016; 12779/2018; 29739/2008; 5972/2007; 8489/1997) ed ultima in ordine di pubblicazione l’ordinanza n. 758/2019 che ha emesso il seguente principio: “In tema d’imposta di successione, intervenuta la soppressione del sistema dell’aliquota progressiva in forza della L. n. 342 del 2000, art. 69, deve ritenersi implicitamente abrogato il D. Lgs. n. 346 del 1990, art. 8, comma 4, che prevedeva il cumulo del donatum con il relictum al solo fine di determinare l’aliquota progressiva da applicare, attesa la sua incompatibilità con il regime impositivo caratterizzato dall’aliquota fissa sul valore non dell’asse, ma della quota di eredità o de/legato”. Tanto premesso la Commissione rigetta l’appello dell’Ufficio e conferma integralmente la sentenza appellata. La soccombenza dell’agenzia delle entrate determina anche il pagamento delle spese di giudizio che la commissione liquida – per il presente grado e tenuto conto del D.M. 55/2014 nonché dei

AGENZIA DELLE ENTRATE CONTESTAVA ILLEGITTIMAMENTE L’OMESSA DICHIARAZIONE DI REDDITI DERIVANTE DA CONTRATTO DI LOCAZIONE. COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DELLA LOMBARDIA RICONOSCE LA REGOLARITÀ DELL’OPERATO DEL RICORRENTE.

PROCESSO TRIBUTARIO Dopo che l’ avviso di accertamento era stato dichiarato illegittimo l’Agenzia delle Entrate faceva appello chiedendo nuovamente maggiore IRPEF. L’appello dell’Agenzia delle Entrate era ai limiti dell’inammissibilità, non pertinente e non fondato . L’omessa dichiarazione non sussisteva: l’Agenzia delle Entrate veniva condannata alle spese una seconda volta.                     Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943 dopo le 14:00 IL PROCESSO Sentenza n. 5566, 30 dicembre 2019, Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, sezione 16.                                Con la sentenza appellata dall’Ufficio è stato accolto il ricorso proposto da S. E. per ottenere l’annullamento dell’avviso di accertamento notificatogli per il recupero della maggiore imposta ai fini IRPEF anno 2012 in ragione dell’omessa dichiarazione di redditi percepiti con riferimento al contratto di locazione per uso non abitativo registrato il 29.1.2010. A sostegno del ricorso il contribuente deduceva l’intervenuta riduzione del canone di locazione, contrattualmente stipulata con scrittura privata 9.12.2011, a partire dall’ 1.1.2012 e di non avere mai percepito le somme in contestazione. L’Ufficio si era costituito controdeducendo la legittimità dell’atto impugnato con l’argomento che la riduzione del canone non provvista di registrazione e di data certa non poteva essere opponibile all’A.F. ai sensi dell’art.2704 cc. La Commissione Tributaria Provinciale, nel motivare l’accoglimento del ricorso, cita la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 60/E/2010, nel senso che l’accordo con il quale le parti pattuiscono la riduzione del canone previsto dal contratto di locazione, non integrando una delle ipotesi tipiche contemplate dall’art.17 DPR 131/86 né un evento che comporti ulteriore liquidazione dell’imposta, non deve essere obbligatoriamente comunicato all’Ufficio; nonché l’art.19 DL 12.9.2014 convertito con la L. 164/2014 che stabilisce l’esenzione da imposta di registro e bollo per la registrazione dell’atto con il quale le parti concordano esclusivamente la riduzione del canone. Non costituisce un obbligo la registrazione di tale atto, quindi l’Ufficio, nel momento in cui vedrà nella dichiarazione dei redditi un importo del canone ridotto rispetto agli anni precedenti, potrà avvalersi degli elementi giustificativi dovuti sia dal locatore che dal conduttore eventualmente chiedendo copia, se esistente come nel caso di specie, dell’accordo di riduzione del canone. Questo procedimento poteva frenarsi alla fase della mediazione con la richiesta dell’Ufficio di copia della scrittura privata che, pur se non autenticata, fa prova sino a querela di falso, analizzando le dichiarazioni dei redditi di entrambe le parti. Con il proposto appello l’Ufficio chiede la riforma della sentenza censurandola per violazione di legge, errata/omessa valutazione di elementi di prova e fatti di causa.         L’avviso è legittimo in quanto emesso in osservanza degli artt.41bis DPR 600/73 e 26-34 DPR 917/86 applicando il principio secondo il quale i redditi fondiari concorrono alla formazione del reddito imponibile indipendentemente dalla loro percezione, essendo ancorato l’obbligo della loro dichiarazione alla condizione soggettiva di proprietario o titolare di altro diritto reale. A suffragare la legittimità dell’attività di accertamento vi è la presunzione che ai fini fiscali debba considerarsi pienamente in vigore tra i soggetti contraenti il contratto di locazione per il quale non è stata pagata l’imposta per la sua risoluzione ovvero non ne sia provata la modifica dei termini contrattuali (artt. 17-18 dpr 131/86). Il fatto che non sia obbligatoria la comunicazione all’A.F. dell’accordo di riduzione del canone di locazione di un contratto in corso, non esclude che la registrazione di tale accordo sia onere della parte che debba fornire la prova di tale accordo, che, se privo di data certa non è opponibile a terzi, compreso l’Erario. Nel caso in esame il contribuente non ha fornito la prova della certezza della data ai sensi dell’art.2704 cc e, contrariamente a quanto ritenuto dalla CTP la scrittura privata non autenticata né registrata fa prova fino a querela di falso limitatamente alla provenienza delle dichiarazioni in essa contenute dai soggetti che l’hanno sottoscritta, ma non si estende al contenuto dichiarativo (art.2702 cc). Né il contribuente ha dimostrato la fondatezza della sua pretesa relativa alla concordata riduzione del canone contrattualmente stabilito, mediante elementi che non siano meri indizi non suffragati da fatti storici attendibili, verificabili e documentabili. Dalle dichiarazioni reddituali non è in alcun modo evincibile la sussistenza dell’accordo in questione né risulta dimostrata la certezza della data attraverso fatti obiettivi equipollenti a quelli previsti dall’art.2704 cc. Si è costituito il contribuente contestando l’ammissibilità, la pertinenza e la fondatezza degli argomenti dell’Ufficio, che pur riconoscendo la non obbligatorietà della registrazione dell’accordo di riduzione del canone, non rientrante fra gli eventi successivi alla conclusione del contratto assoggettati a registrazione in termine fisso dagli artt.3-17 DPR 131/86 trattandosi di modificazioni accessorie dell’obbligazione non comportanti novazione del rapporto, sostiene che per superare la presunzione della validità ai fini fiscali del contratto di locazione del quale non sia stata provata la modifica dei termini contrattuali sia necessaria la registrazione. La registrazione ai sensi dell’art.2704 cc è solo uno degli strumenti per portare a conoscenza dell’A.F. l’accordo di riduzione del canone e i conseguenti effetti ai fini fiscali. L’Ufficio ha trascurato ogni considerazione della documentazione offerta dal contribuente per contestare l’accertamento, allegando all’istanza di autotutela 27.4.2017 oltre alla dichiarazione dei redditi e all’accordo di riduzione del canone sottoscritto dalle parti, il bilancio della società conduttrice S.P.D. srl, soggetto agli obblighi di pubblicità e regolarmente depositato: elementi precisi e concordanti nel dimostrare l’illegittimità della pretesa azionata con la cartella impugnata. All’esito di discussione in pubblica udienza tenutasi in presenza di entrambe le parti, che sì sono riportante alle già formulate conclusioni, la Commissione ha deliberato come da dispositivo riportato in calce alla motivazione dì seguito svolta. I MOTIVI L’appello, proposto ai limiti dell’inammissibilità per carenza di correlazione critica rispetto alla decisione impugnata, è privo di fondamento, in quanto non prospetta alcun argomento di ordine probatorio o logico-giuridico, atto ad inficiare la correttezza in fatto e in diritto della stessa decisione, la cui motivazione deve ritenersi qui integralmente riportata, secondo il principio della reciproca integrazione delle sentenze di primo e di secondo grado in caso di conferma. Nel caso in esame

LE MODALITA’ DI NOTIFICA DELL’ATTO DI ACCERTAMENTO ERANO IRRITUALI: RICORSO IN APPELLO ACCOLTO E PRETESA ILLEGITTIMA DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE INTERAMENTE ANNULLATA

PROCESSO TRIBUTARIO L’atto di accertamento non era stato ritualmente notificato; doveva essere data prova delle ricerche del contribuente nello stesso comune di Milano. Accertamento dell’Agenzia fiscale annullato in grado di appello.   Studio legale Tributario Pirro Milano oltre che con il modulo consulenze online può essere contattato all’indirizzo mail studiopirro@libero.it (oggetto mail: “primo contatto”) oppure al 0229406265; Avvocato Antonella Pirro 3475404943 dopo le 14:00   IL PROCESSO Sentenza del 15 novembre 2019 n. 4563 della Commissione Tributaria Regionale per la Lombardia Sezione 14. I fatti oggetto della presente causa possono così essere riassunti: 1) S. B. ha impugnato l’atto di accertamento con cui gli è stato intimato il pagamento della tassa automobilistica per l’anno 2012: a dire del ricorrente S. B. tale atto non gli era stato ritualmente notificato, atteso che dalla busta in originale contenente l’avviso di liquidazione reperita presso la casa Comunale di Milano era emersa l’esistenza di una prima notifica effettuata nel gennaio del 2014 a mezzo del servizio postale presso l’indirizzo di Via F. C. n. x in M. dove il B. risultava allora avere il domicilio fiscale; non andata a buon fine tale notifica in quanto egli era risultato trasferito, l’Ufficio aveva tentato, il successivo 17 febbraio 2014, una seconda notifica sempre presso l’indirizzo di Via F. C. n. X in M. per il tramite del messo comunale che, informato dal custode dello stabile che il B. si. era trasferito altrove, ha nuovamente effettuato un terzo tentativo il 20 febbraio 2014 non reperendo nuovamente il destinatario ma effettuando ciononostante la notifica dell’avviso di liquidazione ai sensi dell’art. 60, lettera e) del d.p.r. n. 600 del 1973 avendo considerato esso destinatario quale irreperibile assoluto; la doglianza palesata dal B. risiede nel fatto che il messo ha effettuato la notifica ai sensi dell’art. 60, lettera e) del d.p.r. n. 600 del 1973 senza avere previamente effettuato opportune ricerche di esso destinatario presso eventuale altra abitazione od ufficio ubicato nel territorio del Comune ove sussisteva il domicilio fiscale; 2) Costituitosi regolarmente l’Ufficio, la Commissione Tributaria Provinciale di Milano ha, con sentenza n. 5959/2017 disatteso il ricorso del contribuente B. ritenendo che l’atto gravato era stato regolarmente notificato per il fatto che l’atto “risulta essere stato notificato presso il luogo di residenza anagrafica del destinatario, via C. n. X, M.. Giunto in loco, il messo ha trovato il custode, M. S. , il quale ha dichiarato che il sig. B. si era trasferito ignorasi dove, di conseguenza l’atto è stato depositato presso la Casa Comunale di M. ex art. 60 DPR 600/73, lettera E. Nel caso de quo, il Messo Comunale si è trovato di fronte ad una irreperibilità assoluta in quanto all’indirizzo di residenza conosciuto, il custode ha dichiarato che il sig. B si era trasferito ignorasi dove e pertanto poteva solo notificare con il deposito presso casa Comunale ed affiggendo relativo avviso all’Albo Pretorio per 8 gg consecutivi“; 3) S. B. ha interposto appello avverso la sentenza n. 5959/2017 deducendo la nullità dell’atto gravato stante il difetto di notifica per violazione dell’art. 60, lettera e) del d.p.r. n. 600 del 1973: a detta di parte appellante il procedimento di notifica era stato viziato dal fatto che il messo aveva provveduto ai sensi della norma sopra citata, e delle relative modalità di notifica meno garantiste per il soggetto inciso dai provvedimenti impositivi, senza avere previamente effettuato opportune ricerche del destinatario presso eventuale altra abitazione od ufficio ubicato nel territorio del Comune ove sussisteva il domicilio fiscale e/o senza averne dato idonea contezza nella relata di notifica; 4) Si è costituita in giudizio l’Agenzia delle Entrate instando per il rigetto dell’appello della contribuente e per la conferma della sentenza di primo grado: l’Agenzia delle Entrate ha rilevato che, al momento della notifica dell’atto, il domicilio fiscale del B. risultava essere Via F. C. n. X in M. e che, di conseguenza, del tutto rituale doveva essere considerata la notificazione suddetta costituendo preciso onere del contribuente comunicare tempestivamente all’amministrazione finanziaria ogni variazione del domicilio fiscale, onere nel caso di specie non adempiuto; l’Agenzia delle Entrate ha sottolineato infine che in caso di irreperibilità assoluta non occorre che le ricerche, indubbiamente presupposte dalla valutazione sulla mancanza nel Comune dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del contribuente, siano formalizzate in modo esplicito nella relata di notificazione.                                                                           MOTIVI La Commissione ritiene di dover accogliere l’appello azionato da S. B. ed, in riforma della sentenza di primo grado, di annullare l’atto impugnato per i motivi di seguito enunciati. L’art. 60, lettera e), del d.p.r. n. 600 del 1973 prevede in tema di notificazione degli atti impositivi che “quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 del codice di procedura civile, in busta chiusa e sigillata, si affigge nell’albo del comune e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere, si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione”: la norma abilita l’Ufficio a provvedere alla notifica degli atti impositivi secondo le modalità meno garantiste della norma in esame che consente che per gli irreperibili l’avviso. di deposito sia affissò nell’albo pretorio del comune piuttosto che presso la porta dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del contribuente con l’omissione dell’inoltro della successiva raccomandata, subordinando però tale facoltà al fatto che prima di procedervi si effettuino ricerche del destinatario presso eventuale altra abitazione od ufficio ubicato nel territorio del Comune ove sussista il domicilio fiscale del contribuente; nel caso al vaglio del presente giudizio pare alla Commissione che il messo si sia astenuto dal fare tali ricerche avendo tentato di notificare l’atto per ben tre volte presso il medesimo luogo di via C n. x in M. allorché era pacifico che il destinatario dell’atto non risultasse più risiedere lì da tempo. La giurisprudenza del Supremo Collegio ha infatti chiarito che “La notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi, nel sistema delineato dall’art. 60 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, va effettuata secondo il rito previsto

IL RIMBORSO DELL’ADDIZIONALE IRPEF NON DOVEVA ESSERE NEGATO ALL’AMMINISTRATORE DI SPA

PROCESSO TRIBUTARIO A seguito di diniego di rimborso dell’imposta addizionale IRPEF sugli emolumenti dei dirigenti la società per azioni ricorreva in commissione tributaria provinciale, che confermava le ragioni della ricorrente. L’Agenzia delle Entrate riproponeva, però, le proprie doglianze in appello. Vittoria della società contribuente anche in secondo grado. Studio legale Tributario Pirro Milano studiopirro@libero.it 3475404943 IL PROCESSO Sentenza n. 3949 del 2019 della Commissione tributaria Regionale della Lombardia Con ricorso depositato in data 11 gennaio 2017, L. G. S.p.A. ha impugnato il diniego di rimborso dell’imposta addizionale IRPEF sugli emolumenti dei dirigenti, prevista dall’art. 33 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, relativa al periodo di imposta 2011, emesso in data 21 ottobre 2016. Dopo aver messo in luce che l’art. 33 del d.l. n. 78 del 2010 aveva previsto l’assoggettamento delle forme di retribuzione variabile degli amministratori di società ad un’addizionale IRPEF pari al 10%, al ricorrere di specifiche condizioni, la ricorrente ha asserito che in relazione all’esercizio 2011 aveva trattenuto e versato l’importo di euro 149.040,60 riferito alla retribuzione del proprio amministratore R. C.. Peraltro, a seguito di successiva verifica, ritenendo che le somme non fossero dovute, la L. G. s.p.a. ha chiesto il rimborso di quanto versato e, a fronte del provvedimento di rigetto, ha proposto ricorso deducendo l’errata individuazione del presupposto dell’imposizione addizionale IRPEF sugli elementi variabili, poiché la stessa avrebbe dovuto applicarsi solo ai soggetti operanti nel settore finanziario e non a quelli che svolgono la loro attività nelle holding industriali, quale doveva essere considerata la ricorrente. Ha concluso, chiedendo che venisse dichiarato illegittimo l’atto impugnato, con conseguente condanna dell’Agenzia delle Entrate al rimborso dell’importo di euro 149.040,60, oltre ad interessi. Con memoria depositata in data 7 febbraio 2017 si costituiva l’Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale della Lombardia contestando l’interpretazione delle condizioni di applicazione dell’art. 33 del d.l. n. 78 del 2010 effettuata dalla ricorrente e ribadendo che nel settore finanziario dovevano essere comprese anche le società che avessero fra le loro attività quelle di assunzione di partecipazione, vale a dire le società holding. La CTP di Milano accoglieva il ricorso e disponeva il rimborso dell’importo richiesto. Rilevavano i primi giudici come l’ufficio avesse opposto il diniego di rimborso dell’imposta addizionale IRPEF sugli emolumenti dei dirigenti della società ricorrente, prevista dall’art. 33 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, relativa al periodo di imposta 2011, emesso in data 21 ottobre 2016. La richiesta di rimborso era fondata sulla ritenuta inapplicabilità della norma alle holding industriali, quale era da considerare la ricorrente. Rilevavano ancora che l’art. 33 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modificazioni, prevedeva che “1. In dipendenza delle decisioni assunte in sede di G20 e in considerazione degli effetti economici potenzialmente distorsivi propri delle forme di remunerazione operate sotto forma di bonus e stock options, sui compensi a questo titolo, che eccedono il triplo della parte fissa della retribuzione, attribuiti ai dipendenti che rivestono la qualifica di dirigenti nel settore finanziario nonché ai titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa nello stesso settore è applicata una aliquota addizionale del 10 per cento. 2. L’addizionale è trattenuta dal sostituto d’imposta al momento di erogazione dei suddetti emolumenti e, per l’accertamento, la riscossione, le sanzioni e il contenzioso, è disciplinata dalle ordinarie disposizioni in materia di imposte sul reddito. 2-bis. Per i compensi di cui al comma 1, le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano sull’ammontare che eccede l’importo corrispondente alla parte fissa della retribuzione”. La disposizione era stata dettata, in relazione ad accordi internazionali, per omogeneizzare il trattamento fiscale delle retribuzioni e dei compensi nell’ambito del settore finanziario. Trattandosi di norma di deroga al regime ordinario l’applicazione doveva essere riferita al solo settore che il legislatore aveva inteso disciplinare in modo speciale. Al fine di fornire criteri applicativi omogenei, l’Agenzia delle Entrate aveva emanato una circolare con la quale aveva asserito che nel settore finanziario rientravano le banche, gli intermediari finanziari e le società la cui attività consistesse in via principale o esclusiva nell’assunzione di partecipazioni in base alla previsione dell’art. 59, co. 1, lett. b del D. Lgs. n. 385 del 1993 (Circolare n. 4/E del 15 febbraio 2011). Sempre secondo la CTP la Circolare dell’Amministrazione finanziaria era elemento utile ai fini dell’interpretazione delle norme e, sicuramente, vincolante per gli uffici finanziari, anche per evitare difformità comportamentali. Tuttavia non poteva considerarsi fonte del diritto e non era idonea a vincolare il giudice, trattandosi di atto privo di valenza normativa. Nel caso di specie, l’interpretazione della norma fornita dalla Circolare non era condivisibile poiché ampliava in modo indebito la nozione di settore finanziario, come, peraltro, era stato sottolineato dalla Corte costituzionale che aveva ritenuto la norma non in contrasto con la Costituzione poiché la “ragione che ha indotto il legislatore a prevedere il prelievo addizionale di cui alla disposizione censurata, ossia l’intento – coerente con il coevo atteggiamento manifestatosi a livello internazionale – di scoraggiare modalità remunerative variabili considerate pericolose per la stabilita finanziaria” (Corte Cost. 16 luglio 2014, n. 201). Il riferimento al mercato finanziario e la finalità della norma escludevano, pertanto, che l’obbligo fosse applicabile a soggetti diversi da quelli individuati dalla disposizione e, in particolare per quanto di interesse in questa sede, ai dipendenti ed amministratori delle holding che operano nel settore industriale. Fondata era quindi la richiesta di rimborso di L. G. S.p.A. per l’importo di euro 149.040,00. La sentenza veniva impugnata dall’Agenzia delle entrate che con un unico motivo censurava la decisione per non aver ricompreso nell’ambito del settore finanziario anche le holding industriali, quale è la società L. G. spa. I MOTIVI In particolare, secondo l’Ufficio appellante, che richiamava la Circolare n. 4/E del 15 febbraio 2011, in mancanza di una espressa definizione di “settore finanziario”, il citato art. 33 DL. 78/2010 andava interpretato facendo “necessariamente riferimento alle norme in vigore al momento in cui l’addizionale .. è stata introdotta” (cioè 31 maggio 2010), con l’effetto che dovevano ritenersi assoggettate all’addizionale Irpef del 10% anche le holding industriali: -in base al D.lgs. 87/1992 (Attuazione della direttiva n. 86/635/CEE, relativa ai conti annuali ed ai conti consolidati delle banche e degli altri istituti finanziari) che, all’art. 1, vigente alla data del 30 maggio