LA CORTE RILEVA L’ERRONEITÀ DELL’AVVISO DI ACCERTAMENTO DELL’AGENZIA, NELLA PARTE IN CUI RECUPERA I COSTI SENZA ABBATTIMENTO DEI RICAVI, E ACCOGLIE IL TERZO MOTIVO DEL RICORSO DEL CONTRIBUENTE

PROCESSO TRIBUTARIO

In caso di rideterminazione del reddito, a seguito di costi asseritamente fittizi, l’Agenzia delle Entrate deve comunque procedere ad abbattere anche i ricavi, diversamente, l’accertamento degli stessi è illegittimo:  motivo del ricorrente accolto.

 

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IL PROCESSO

Sentenza del 30/09/2020 n. 20831 la Corte di Cassazione – Sezione/Collegio 5:

La Commissione tributaria regionale del Piemonte accoglieva inizialmente l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza n. 60/01/09 della Commissione tributaria provinciale di Novara, che aveva accolto il ricorso proposto dalla Be. s.r.l. nei confronti di un avviso di accertamento per IRPEG, IRAP e IVA.

L’avviso di accertamento traeva origine da un controllo eseguito dalla Guardia di finanza nei confronti della ditta individuale, la quale aveva venduto dei macchinari, oggetto di successiva rivendita a società di leasing a prezzo maggiorato; tali ultime società avevano ceduto, quindi, in leasing i menzionati macchinari ad una cooperativa a responsabilità limitata e ad una società a responsabilità limitata s.r.l., società che successivamente venivano dichiarate fallite; le menzionate operazioni di acquisto e rivendita venivano considerate inesistenti  e finalizzate «a consentire l’accesso al credito ed ottenere illecitamente liquidità».

La CTR motivava l’accoglimento dell’appello dell’Agenzia delle entrate evidenziando che in relazione agli elementi indiziari versati in atti (elementi emersi sia dalla contabilità di E., sia da una diretta verifica nei confronti di B., sia dai collegamenti tra i dati acquisiti) doveva ritenersi la simulazione delle vendite effettuate da E. a B., anche perché le due società utilizzatrici, M. s.coop.r.l. e T. s.r.l., coincidevano sostanzialmente con la stessa E.;  la circostanza che tra gli intermediari erano presenti anche società di leasing non era significativa, «svolgendo usualmente detti operatori l’istruttoria relativa a cessione di macchinari sulla base della documentazione fornita dalle ditte interessate, senza necessità di visionare o ispezionare i beni oggetto di locazione finanziaria».

La ditta individuale B. impugnava la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato a sei motivi.

L’Agenzia delle entrate si costituiva in giudizio al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa ai sensi dell’art. 370, primo comma, cod. proc. civ.

 

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso B. contesta la violazione o la falsa applicazione dell’art. 36 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 e dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc. civ., per la mancanza, nella sentenza impugnata, di alcun riferimento normativo e di diritto in relazione alla legittimità dell’accertamento.

Il motivo, che va riqualificato ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., denunciando sostanzialmente un error in procedendo, è infondato.

La sentenza della CTR è motivata sia in fatto che in diritto con riferimento agli elementi indiziari acquisiti agli atti e ritenuti sufficienti a supportare l’accertamento dell’Agenzia delle entrate.

Non ha, infatti, alcun rilievo la circostanza che la sentenza non abbia dato specificamente conto delle norme di legge applicabili alla fattispecie, essendo sufficiente, ai fini della validità della sentenza, che a dette norme si sia fatto concretamente riferimento.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione o la falsa applicazione dell’art. 113 Cost. e dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., non avendo l’Agenzia delle entrate assolto all’onere probatorio sulla stessa gravante, in quanto gli elementi indicati dalla CTR non sono indicativi della inesistenza delle operazioni poste in essere da B.

La ricorrente denuncia, da un lato, la violazione delle regole inerenti al riparto dell’onere probatorio in giudizio e, dall’altro, la circostanza che gli elementi indiziari considerati dalla CTR non sarebbero sufficienti a ritenere la fittizietà delle operazioni di acquisto e rivendita di macchinari compiute da B.

Sotto il primo profilo, la sentenza impugnata ha correttamente addossato in capo all’Amministrazione finanziaria l’onere di provare la simulazione dell’operazione di acquisto e rivendita, ritenendo, altresì, tale onere assolto sulla base degli elementi indiziari acquisiti agli atti di causa.

Sotto il secondo profilo la contestazione delle argomentazioni della CTR in ordine al raggiungimento della prova della inesistenza delle operazioni poste in essere dalla società contribuente integra un vizio di motivazione (peraltro, contestato con il sesto motivo) e non già un vizio di violazione di legge.

Con il sesto motivo di ricorso, il cui esame appare preliminare agli altri motivi, B. deduce appunto il vizio di insufficiente motivazione della sentenza impugnata, evidenziando che le conclusioni raggiunte dalla stessa in ordine alla inesistenza delle operazioni di acquisto e rivendita non avrebbero tenuto conto delle deduzioni difensive della società contribuente.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, «la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione» (Cass. S.U. n. 24148 del 25/10/2013; Cass. n. 29404 del 07/12/2017).

Inoltre, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza, impugnata con ricorso per cassazione, conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale (sottoposta al suo vaglio) ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge.

Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione» (Cass. n. 19547 del 04/08/2017).

Nel caso di specie, la CTR ha congruamente e logicamente argomentato in ordine alle ragioni per le quali dagli elementi indiziari forniti dall’Ufficio si debba dedurre l’inesistenza delle operazioni poste in essere dalla ricorrente; quest’ultima, invece, mira a fornire una diversa valutazione degli stessi fatti indicati a fondamento della pretesa dell’Amministrazione finanziaria, chiedendo, una rivalutazione nel merito dei medesimi fatti inammissibile in sede di legittimità, non essendo stati nemmeno indicati fatti diversi e decisivi dei quali il giudice di appello non abbia tenuto conto.

Con il terzo motivo di ricorso si deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 53 e 111 Cost., dell’art. 75 del d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo unico delle imposte sui redditi – TUIR) e dell’art. 14, commi 4 e 4 bis, della l. 24 dicembre 1993, n. 537, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., evidenziando l’erroneità dell’avviso di accertamento nella parte in cui ha ritenuto legittimo «il recupero dei costi fittizi, senza abbattimento dei ricavi falsamente dichiarati».

Il motivo è fondato nei termini che seguono.

Come formalmente richiesto dalla parte ricorrente, va applicato in ipotesi lo ius superveniens costituito dall’art. 8 del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, conv. con modif. nella l. 26 aprile 2012, n. 44, vertendosi (anche) in materia di imposte dirette ed IRAP.

L’art. 8, comma 1, del d.l. n. 16 del 2012 ha sostituito l’art. 14, comma 4 bis, della l. n. 537 del 1993, nel modo che segue: «Nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell‘art. 424 cod. proc. pen. , ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 del citato codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 cod. pen.. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’art. 530 cod. proc. pen., ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell‘art. 425 c.p.p., fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’art. 529 cod. proc. pen., compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi».

L’art. 8, comma 2, del d.l. n. 16 del 2012 prevede, altresì, che ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi», applicandosi in tal caso solo una sanzione amministrativa.

Tenuto conto del disposto del comma 3 – per il quale le disposizioni di cui al citato comma 1 «si applicano, in luogo di quanto disposto dalla L. 24 dicembre 1993, n. 537art. 14, comma 4-bis, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore» dello stesso comma 1, «ove più favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al citato comma 4-bis previgente non si siano resi definitivi» – appare evidente che le innovazioni sopra richiamate hanno portata retroattiva e, ove rilevanti, sono applicabili anche d’ufficio (cfr. Cass. n. 7896 del 20/04/2016; Cass. n. 22430 del 19/12/2014 e la giurisprudenza ivi richiamata).

Le richiamate disposizioni trovano applicazione nel caso di operazioni sia soggettivamente sia oggettivamente inesistenti.

Nel primo caso, questa Corte ha già avuto occasione di rilevare, anche sulla scorta della relazione al disegno di legge di conversione del d.l. n. 16 del 2012, che la nuova normativa comporta che, poiché nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, i beni acquistati – di regola (e salvo il caso, ad esempio, in cui il “costo” sia consistito nel “compenso” versato all’emittente il falso documento) – non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato ma, nella maggior parte dei casi, per essere commercializzati, non è più sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore perché non siano deducibili, ai fini delle imposte sui redditi, i costi relativi a dette operazioni; ferma restando, tuttavia, la verifica della concreta deducibilità dei costi stessi in relazione ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità.

Pertanto, in tema di imposte sui redditi, a norma dell’art. 14, comma 4 bis, della l. n. 37 del 1993, nella formulazione introdotta con l’art. 8, comma 1, del d.l. n. 16 del 2012, sono deducibili per l’acquirente dei beni i costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti (non utilizzati direttamente per commettere il reato), anche per l’ipotesi che l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che, a norma del T.U. delle imposte sui redditi approvato con d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917, siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (cfr. Cass. n. 10167 del 20/06/2012; Cass. n. 24426 del 30/10/2013; Cass. n. 26461 del 17/12/2014; Cass. n. 25249 del 07/12/2016).

Con riguardo alle operazioni oggettivamente inesistenti grava sul contribuente l’onere di provare la fittizietà di componenti positivi che, ai sensi dell’art. 8, comma 2, del d.l. n. 16 del 2012, ove direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni e servizi non effettivamente scambiati o prestati, non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi (Cass. n. 7896 del 2016, cit.; Cass. n. 22430 del 2014, cit.; Cass. n. 25967 del 20/11/2013).

In definitiva, che si tratti di operazioni soggettivamente inesistenti ovvero di operazioni oggettivamente inesistenti, la CTR avrebbe dovuto considerare l’incidenza dei costi aventi le caratteristiche previste dalla legge ai fini della rettifica del reddito, sicché la sentenza va cassata affinché il giudice del rinvio, previa qualificazione delle operazioni poste in essere da B., valuti le modalità con le quali tale qualificazione sia o meno idonea ad incidere sulla determinazione del reddito.

In proposito, il giudice del rinvio dovrà anche valutare la rispondenza ai superiori principi di diritto dello sgravio effettuato dall’Amministrazione finanziaria in data 26/10/2012 (documento n. 11 allegato al ricorso), su espressa istanza della società contribuente, che ha richiamato la modifica introdotta dall’art. 8 del d.l. n. 16 del 2012.

Con il quarto motivo di ricorso B. deduce la violazione o la falsa applicazione dell’art. 43 del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600 e dell’art. 54 del d.p.r. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.

In buona sostanza, si contesta che la proroga biennale di cui all’art. 10 della l. 27 dicembre 2002, n. 289 non sia applicabile in materia di IVA, in ragione della dichiarata incompatibilità di tale legge con il diritto unionale.

La sentenza impugnata non affronta la relativa questione sicché, ove la ricorrente avesse tempestivamente proposto in primo e secondo grado la questione, avrebbe dovuto formulare specifica censura di omessa pronuncia ai sensi dell‘art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.

In ogni caso, come evidenziato dalla giurisprudenza di questa Corte, «la proroga biennale dei termini di accertamento, accordata dall’art. 10 della l. n. 289 del 2002, opera “in assenza di deroghe contenute nella legge” sia nel caso in cui il contribuente non abbia inteso avvalersi di tali disposizioni, pur avendovi astrattamente diritto, sia nel caso in cui non abbia potuto farlo, atteso che il meccanismo di proroga è finalizzato a tutelare il preminente interesse dell’Amministrazione finanziaria all’accertamento e alla riscossione delle imposte» (così Cass. n. 16964 del 11/08/2016; ma il principio è pacifico: conf. Cass. n. 3816 del 16/02/2018; Cass. n. 22921 del 29/10/2014; Cass. n. 17395 del 23/07/2010).

Ciò significa che la proroga biennale di cui all’art. 10 della l. n. 289 del 2002 si applica sia nel caso in cui il contribuente non abbia presentato domanda di condono per sua scelta, sia nel caso in cui questi non abbia potuto presentarla perché la disciplina sul condono non trova applicazione per qualsiasi ragione, di fatto o di diritto.

In questo contesto, la declaratoria di illegittimità comunitaria del condono IVA non preclude, con riferimento a tale tributo e come sostenuto dalla ricorrente, l’applicazione della menzionata proroga.

Invero, come correttamente argomentato, da ultimo, da Cass. 16433 del 05/08/2016 (in motivazione): «la disapplicazione delle norme interne sul condono all’IVA, in forza dei principi statuiti nella menzionata sentenza della Corte di giustizia UE del 17 luglio 2008 (causa C-132/06), non spiega effetto sulla distinta questione della proroga dei termini per l’accertamento di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 10, “introdotta per consentire all’amministrazione di dedicarsi alla complessa gestione degli adempimenti imposti dalla legge di condono, così da poter compiere le connesse operazioni senza pregiudizio dell’azione di contrasto dell’evasione e di controllo per le annualità ancora (all’epoca) accertabili, anche nei confronti di contribuenti che non avessero ritenuto di fruire della opportunità della definizione premiale“, sicché quel “maggior termine procedimentale, anche se di rilevanza sostanziale… non poteva essere retroattivamente vanificato su base interpretativa, in ragione della illegittimità comunitaria del condono dell’Iva“, tanto più essendo quest’ultima ispirata proprio dalla “necessità di salvaguardare il potere accertativo, non di deprimerlo” (Cass. n. 2194/15)» (cfr. anche Cass. n. 3610 del 07/02/2019).

Con il quinto motivo di ricorso si deduce la violazione o la falsa applicazione dell’art. 27, primo comma, Cost. e dell’art. 5 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, in relazione all‘art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., in quanto B. non potrebbe essere chiamata a rispondere di fatti imputabili a terzi, non avendo partecipato alla frode IVA e non essendo a conoscenza della stessa.

L’affermazione per la quale B. non sarebbe a conoscenza della frode perpetrata da E. e dalle società fallite è in contrasto con la ricostruzione in fatto della CTR, la quale ha ritenuto fittizie le operazioni poste in essere dalla società contribuente, inserendole in un complessivo disegno volto a far ottenere credito a T. s.r.l. e a M. s.coop.r.l., disegno del quale risulta che B. sia stata pienamente consapevole.

In conclusione, va accolto il terzo motivo di ricorso e vanno rigettati gli altri motivi; la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto e rinviata alla CTR del Piemonte, in diversa composizione, per nuovo esame e per le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso e rigetta gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Piemonte, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.

 

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